Quake e la rivoluzione dello shareware
Prima di Game Pass e delle demo, quando i giochi si copiavano legalmente.
Ciao,
questa puntata della newsletter prende spunto da una parola dei videogiochi del passato, una di quelle che non si sentono più da un bel pezzo: shareware. C’è però un’intera generazione di giocatori che se la ricorda molto bene, perché ha tenuto in mano o nello zaino blocchi di dischetti, copiati seguendo la filosofia della condivisione. Per parlare di shareware, e più nello specifico del caso di Quake di id Software, ho fatto un paio di domande a Carlo Barone, che nel 1996 scrisse la recensione del gioco per una delle principali riviste italiane del settore.
Poi: grazie per la partecipazione al sondaggio di un paio di settimane fa riguardo al giorno di invio di questa newsletter. Ho deciso che il nuovo giorno delle Parole dei videogiochi sarà il venerdì. Ora devo solo capire se riuscirò a farlo già questa settimana, tra pochi giorni.
Infine: mi sto impegnando per rendere più brevi i testi delle puntate, ma questa volta ho fallito malamente.
Buona lettura!
Se ti piace, mandami dei soldi
Alcune settimane fa ero tutto intento a perdere tempo studiare Zeta. Ho già scritto di Zeta in un’altra puntata della newsletter, è stata una rivista mensile dedicata ai videogiochi per computer realizzata da Studio Vit. Per completezza dico anche che ho lavorato nella redazione di Zeta tra il 1997 e il 2000, così se ne parlo bene sapete anche il perché. Sfogliando il numero di luglio/agosto 1996, mi è saltato all’occhio un particolare della recensione di Quake (id Software): indicava i server da cui scaricare la versione shareware del gioco. Era un sacco di tempo che non pensavo più ai giochi distribuiti via shareware.
Diceva nel 1970 il poeta e musicista Gil Scott-Heron: “The Revolution Will Not Be Televised”, la rivoluzione non sarebbe avvenuta rimanendo a fissare il televisore e ancorandosi al divano del salotto. Ma vent’anni dopo, la rivoluzione nel campo dei videogiochi (o almeno “una” rivoluzione) avvenne di fronte al monitor dei computer e fu condivisa. Perché c’è stato un periodo in cui copiare il contenuto di un floppy non equivaleva ad allargare le file della pirateria. È stata l’epoca dello shareware.
Le origini del termine risalgono agli inizi degli anni Ottanta, quando c’è chi intuisce l’esistenza di uno spazio per un mercato differente, lontano dallo standard fatto dall’acquisto di un bene o di un servizio, a fronte di un pagamento completo e immediato.
Ho un programma, l’ho scritto io, fa questo e quest’altro. È disponibile gratuitamente, ma se ti piace puoi spedirmi dei soldi. E anche se non ti piace, puoi comunque farne delle copie e darle ai tuoi amici, magari a qualcuno di loro piacerà e mi invierà dei soldi.
Così scrisse Andrew Fluegelman attorno al 1981 su The Source e Compuserve, due servizi che mettevano in rete i computer americani negli anni ‘80 (ben prima di ciò che oggi conosciamo come “internet”, il world wide web). Fluegelman, un imprenditore californiano, realizzò un programma per mettere in comunicazione i personal computer: PC-Talk. Quello descritto sopra è il sistema che scelse per diffonderlo e decise di etichettare il suo programma non come un software, ma come “freeware”.
C’è un approfondimento lungo e molto ben fatto, pubblicato da The Digital Antiquarian1, che si è preso proprio la briga di ricostruire come si è passati dal software al freeware, arrivando infine allo shareware. È una lettura che consiglio assolutamente, ma nel frattempo è sufficiente sapere che qualcuno si chiese se “freeware” (software gratuito) non fosse un termine equivoco, rispetto all’obiettivo che si poneva il modello descritto proprio da Fluegelman e, intanto, ripreso anche da altri. Così, attraverso le pagine di una rivista di settore, un sondaggio tra i suoi lettori e la consulenza con altri imprenditori, si arrivò alla scelta di “shareware” (software da condividere).
Nel 1988 un articolo pubblicato sul Washington Post si occupò di aggiornare i lettori sulla nuova versione di PC-Write, un altro programma per computer (un elaboratore di testi elettronico), realizzato nello stesso periodo di PC-Talk, questa volta da Bob Wallace, che era già stato uno dei primi dipendenti di Microsoft e che finì con il collaborare proprio con Fluegelman. Scrisse il Washington Post:
Shareware is not public-domain software. It is copyrighted, but the author allows the program to be passed out free or for a nominal charge. Users who like it are asked to pay a registration fee, which entitles them to a manual and telephone support.2
Un software shareware non è di pubblico dominio. È sotto diritto d’autore, ma l’autore concede che il programma possa essere copiato gratuitamente o a un costo simbolico. Agli utenti che lo apprezzano, si chiede di pagare un costo di registrazione che gli assicura di ricevere un manuale e il supporto telefonico.*
Rispetto all’apparizione di PC-Talk sulle bacheche online di The Source e Compuserve, qualcosa è già cambiato. E qualcosa cambiò ancora quando a interessarsi allo shareware iniziarono a essere gli appassionati di videogiochi.
BONUS!
Gli eroi dello shareware
Non soddisfatto di avere già ripercorso la storia dei videogiochi su Mac, in lungo e in largo, con The Secret History of Mac Gaming (Bitmap Books, 2021)3, Richard Moss ha studiato e poi spiegato l’epoca dello shareware in un altro volume. Il titolo è Shareware Heroes: The Renegades Who Redefined Gaming at the Dawn of the Internet (Eroi dello shareware: i ribelli che ridefinirono i videogiochi all’alba di internet, editore Unbound, 2022).
Non ho ancora avuto modo di leggerlo, ma considerando l’eccellente lavoro svolto da Moss nel suo libro precedente, non ho molti dubbi a riguardo.
Il volume è disponibile anche attraverso Amazon, a questo indirizzo (clicca qui). Io l’ho appena comprato, è possibile che ne torni a parlare in una prossima puntata.
Il terremoto di id Software
Ora che è piuttosto chiaro cosa fosse lo shareware, non serve ripercorrere l’intero arco che compì nell’ampio orizzonte dei videogiochi. Anche perché lo spazio è quello che è. È sufficiente segnalare che la prima etichetta a basare per intero le proprie fortune sullo shareware fu l’americana Apogee, fondata da Scott Miller nel 1986. Miller ebbe l’intuizione di adeguare il modello shareware ai videogiochi, suddividendo un suo videogioco (Kingdom of Kroz) in tre episodi e proponendo il primo gratuitamente e i restanti al costo di 7,50 dollari ciascuno. Apogee sarebbe poi diventata 3D Realms e, tra gli altri, avrebbe pubblicato Duke Nukem 3D nel 1996. Nel 2021 3D Realms è stato l’ennesimo nome entrato a far parte dello sterminato catalogo di brand ed etichette di Embracer Group.
Per quanto Apogee e Miller avessero dimostrato le potenzialità del modello shareware, fu id Software a farsi forza su quel modello, fino a raggiungere la vetta delle classifiche dei giochi più venduti. All’inizio degli anni Novanta il gruppo, che aveva già collaborato con Apogee e Miller per Wolfenstein 3-D, scrisse una delle storie più affascinanti del libro mastro dei videogiochi. Una storia già perfettamente tramandata da Masters of Doom di David Kushner4 (editore Piatkus, 2004). Wolfenstein 3-D nel 1992 e soprattutto Doom nel 1993, cambiarono una generazione, la percezione dei computer, la sorte di id Software, l’evoluzione dell’intero settore e suggerirono spazi e modelli differenti da quelli dei giochi “inscatolati” e portati nei negozi da grossi editori e distributori. Entrambi i giochi prevedevano degli episodi e se il primo era offerto gratuitamente, gli altri andavano sbloccati. Il costo per il pacchetto totale, nel caso di Doom, era di 40 dollari.
Il passo successivo, per id Software, fu Doom II nel 1994. Per l’occasione il gioco non si avvalse del modello shareware. E poi fu la volta di Quake, nel 1996. Siamo così tornati al punto di partenza. Nel 1996 Quake era di gran lunga il gioco più atteso, perlomeno da chi giocava su PC. La recensione su Zeta venne curata da Carlo Barone, che si occupò del primo episodio di Quake, perché sì, Quake tornò a essere distribuito anche come shareware.
Se stai facendo un po’ quella faccia lì che abbiamo noi, noi che questa cosa ce l’eravamo totalmente scordata, ecco… siamo in due (come minimo). Eppure è andata così ed è spiegato anche in Masters of Doom. id Software, ai ferri corti con GT Interactive che fungeva da editore per Quake, riuscì a ottenere i diritti per la pubblicazione diretta della versione shareware di Quake. Che quindi comparve sia come pacchetto completo nei negozi, su iniziativa di GT Interactive, che come download gratuito del primo episodio online, da parte di id Software. Ma il team di sviluppo arrivò a distribuire anche una versione inscatolata del gioco a prezzo ribassato, che concedeva l’accesso solo al primo episodio ma conteneva già i dati degli altri (di nuovo da sbloccare pagando una cifra aggiuntiva).
Dalla recensione di Quake già citata:
Già dallo scorso anno […] si parlava di un nuovo titolo a cui stava lavorando [id Software] che avrebbe dovuto rivoluzionare il genere e, dopo mesi di schermate, voci di corridoio e una versione test in Deathmatch, è finalmente disponibile la shareware di Quake.5
Barone e Zeta promossero Quake con un nove pieno e lodi riservate soprattutto alla realizzazione tecnica e alle suggestioni delle sue atmosfere.
L’aspetto sicuramente più impressionante di Quake risiede, però, nell’incredibile aspetto grafico conferitogli dalla id Software. Ogni cosa al suo interno è stata, infatti, realizzata per mezzo di poligoni solidi: armi, bonus da raccogliere, particolari dello sfondo e, soprattutto, i mostri. Questi ultimi sono probabilmente i più bei nemici mai visti in un videogioco di questo genere, non tanto per il loro aspetto (davvero meraviglioso se avete la fortuna di giocare in SVGA), ma soprattutto per le incredibili animazioni che li contraddistinguono.
Si tratta dichiaratamente dell’analisi del primo episodio di Quake, dei quattro che compongono l’intero gioco. Oggi verrebbe da chiedersi se la materia prima messa sul banco di prova fosse sufficiente a tirare una riga. Nella recensione di Barone, dopotutto, lo si spiega senza alcun giro di parole:
[…] dovete prendere queste osservazioni con le debite riserve, fino a che non sarà disponibile la versione finale di Quake.
Sono le righe conclusione di quella recensione. Avevo scordato che succedesse di recensire i primi episodi dei giochi shareware, un po’ perché è un modello abbandonato da un bel pezzo e un po’ perché da svariati anni c’è addirittura lo spauracchio di ammettere di aver recensito un gioco senza averlo visto per intero. Non che non succeda o che non sia successo, semplicemente si tende a non renderlo evidente agli occhi di chi legge. Io, su questa faccenda, ho un’idea piuttosto complessa e mi pare di averlo scritto di recente anche in un’altra puntata. Ho comunque voluto parlarne con lo stesso autore di quella recensione, che ho il piacere di conoscere fin da quando iniziò a parlarmi di un certo Diablo, solo un paio di mesi più tardi rispetto a quella recensione.
Si può tracciare un parallelo e dire che sarebbe l’equivalente di recensire, oggi, solo una porzione di un videogioco?
All’epoca la capacità di un giocatore di raccogliere informazioni era incredibilmente limitata, l’uso di Internet era ancora molto limitato (soprattutto in Italia!) e chi poteva utilizzava generalmente connessioni a 28.8kbps (i 56k sarebbero arrivati solo l’anno successivo). Per contestualizzare, scaricare i 9MB circa della versione shareware di Quake, richiedeva in media un’ora di connessione continua, in circostanze ottimali… e tutto questo pagando ogni minuto con l’infame Tariffa Urbana a Tempo. Insomma, leggerne era sicuramente più pratico! Poi, come hai giustamente detto tu, l’hype dietro a Quake era immenso… ed era giusto cavalcarne l’onda. In tutta onestà, non ricordo come decisi di gestire quella recensione, ma se da un lato sarebbe stato indubbiamente impossibile valutare correttamente la qualità del single player, era invece ben chiaro l’impatto tecnologico di quel motore che avrebbe segnato, letteralmente, un prima e un dopo nel mondo degli FPS.
In poche righe Carlo, perché mi viene difficile chiamare un amico per cognome fuori da un’aula di tribunale, isola almeno una delle differenze essenziali tra lo scrivere di videogiochi in un’era in cui internet era ancora appannaggio di pochissimi e una in cui è la quotidianità per la totalità dei lettori.
Oggi Carlo è Supervisor, Brand Management Italy di Riot Games (League of Legends, Valorant) e negli ultimi quindici anni abbondanti ha ricoperto ruoli simili per altri editori di rilievo nel mondo dei videogiochi, come Square Enix e Activision Blizzard. Ha quindi molto senso sentire la sua anche riguardo alla scelta di id Software di tornare ad affidarsi al modello shareware nel 1996.
Nel 1996 Quake era uno dei giochi più attesi non solo della sua annata, ma del settore in senso più largo. Era il nuovo progetto dei creatori di Doom, il gioco che aveva cambiato interamente la scena dei videogiochi su PC e, come avremmo scoperto, influenzato significativamente una parte molto importante dei videogiochi del futuro. Con queste premesse, Quake viene pubblicato seguendo il modello shareware. Che sensazioni ti dà, a ripensarci adesso?
Nonostante il periodo del suo lancio stesse già vedendo la fine dell’era della distribuzione dei giochi via shareware, allora, come adesso, ritengo che per id Software fosse una scelta logica e sensata. Lo stesso successo di Doom che citi fu reso possibile in grandissima parte proprio da quella modalità di distribuzione, perché dunque cambiare approccio? Era per loro un metodo collaudato e, sicuramente, era qualcosa che i loro stessi fedelissimi si aspettavano. In retrospettiva, e con l’esperienza accumulata a oggi lato publisher, mi sento di aggiungere che una scelta simile aveva anche (probabilmente) l’intenzione di iniziare un test su larga scala della possibilità di giocare via Internet, visto che Quake fu proprio uno dei pionieri di questa opportunità, consentendo un’ottimizzazione del netcode per il lancio del gioco completo che sarebbe stata altrimenti impossibile.
Attraverso la distribuzione shareware, i videogiochi scoprirono che la distanza tra le grandi produzioni e quelle “indipendenti” (ma il termine è impreciso) non era poi così marcata. Iniziarono anche a intuire come internet avrebbe potuto modificare lo status quo delle cose. Va comunque detto che, nel 1996, il mercato era drasticamente diverso da quello attuale: ci si stava avviando verso una configurazione che avrebbe reso sempre più grandi i gruppi e gli editori internazionali che erano già grandi, ma la distanza rispetto a quanto potevano ancora fare i team di sviluppo più piccoli e tradizionali era ancora limitata e non così decisiva.
Alla fine degli anni Novanta non si parla di una scena indipendente, perché sono ancora dozzine gli studi che oggi definiremmo “piccoli” e che, grazie ad accordi di produzione e distribuzione siglati con le major, finiscono in cima alle classifiche. Quella non è la scena indipendente, è semplicemente come funziona la realtà dei videogiochi. O almeno una parte importante del mercato. Tra i giochi più importanti del 1995, come segnalati da Electronic Gaming Monthly6, ci sono svariati titoli realizzati da studi che sono di fatto indipendenti e pubblicati da editori di medie o grandi dimensioni. C’è Gex, creato da una giovane Crystal Dynamics e pubblicato da BMG Interactive, c’è Vectorman (Blue Sky Software → Sega), c’è Cannon Fodder (Sensible Software → Virgin Interactive), c’è WarHawk (SingleTrac → Sony Computer Entertainment).
I nomi di id Software e Apogee, un paio di anni prima, potevano essere inseriti solo nell’elenco del sottobosco semi-amatoriale dello sviluppo di videogiochi, altro che “scena indipendente”. E anche grazie al modello shareware, arrivarono dove arrivarono.
Ma a proposito di Apogee e di Duke Nukem 3D… ho un’ultima curiosità da togliermi, con Carlo.
Il panorama degli sparatutto in soggettiva di quegli anni era dominato da Doom, Duke Nukem 3D e dall’attesa di Quake e Unreal. Questi sono anche i giochi che citi nella tua recensione per inquadrare il contesto. A ripensarci oggi, sappiamo che Duke Nukem aveva praticamente già detto tutto e che Unreal sarebbe stata poco più di una meteora. Che effetto ti fa ripensarci?
Duke Nukem 3D aveva detto tutto (oggi forse, diremmo “anche troppo” 😀) in quanto a narrativa e varietà di situazioni, ma, soprattutto, puntava su un personaggio ricco di “personalità” che da solo era sufficiente a motivare gran parte dei giocatori del tempo. Ad avere detto tutto, però, era anche la tecnologia di cui Duke Nukem 3D rappresentò il punto di arrivo… ma il mondo degli sparatutto in soggettiva aveva bisogno di andare oltre, esplorando le incredibili possibilità offerte dal “vero” 3D. In questo senso, Quake in primis, ma anche Unreal, hanno svolto un ruolo fondamentale nello stabilire le fondamenta di quello che sarebbe arrivato “dopo”... evolvendosi in Quake 3 e Unreal Tournament, quali punti di svolta del mondo competitivo (che mi è sempre stato a cuore, anche prima di occupare il ruolo che ora ricopro!), mentre, per quanto riguarda la narrazione e l’esperienza single player, probabilmente ispirando una all’epoca sconosciuta Valve Software a produrre quel sempiterno capolavoro di nome Half-Life. Specialmente guardandomi indietro oggi, dunque, non posso non apprezzare il contributo che entrambi i giochi hanno dato al mondo videoludico, nonostante i loro indubbi limiti su cui, in quegli anni, forse sulla scia dell’entusiasmo, si è deciso indubbiamente di soprassedere.
NEXT-GEN
Nella prossima puntata
Nelle migliori edicole vostre caselle email il 10 o il 13 novembre (ora vedo)!
SEMIRETRO
Nelle puntate precedenti
Nintendo 64: dalla realtà al sogno (1 novembre)
Analogue 3D e l’emulazione con un chip FPGA (30 ottobre)
La mia recensione di Super Mario Bros. Wonder (27 ottobre)
Spider-Man 2: recensire un gioco su licenza (20 ottobre)
Una puntata su Mortal Kombat (16 ottobre)
Questa newsletter è stata riletta e corretta da Floriana Grasso: se sei alla ricerca di qualcuno che ti corregga le bozze, prova a contattarla!
“I think it's perfectly clear - we're in the wrong band” (Tori Amos)
Questa puntata è lunga oltre 17.000 caratteri, che corrispondono a più di 4 pagine su una qualsiasi rivista di videogiochi da edicola. Nel 1996 mi sarebbe stata pagata circa 100 euro da Studio Vit (calcolato su 140.000 lire con InflationHistory.com). Nel 2003 oltre 250 euro da Future Publishing.
Qui ne ho scritto per IGN: https://it.ign.com/ign-retro/194208/feature/la-strana-storia-dei-videogiochi-su-mac
Zeta, luglio/agosto 1996, editore Studio Vit
Ottimo episodio e, aggiungo, Shareware Heroes è davvero un testo da leggere, merita delle segnalazioni affinché si diffonda il più possibile.
Per quanto riguarda il tema principale, ho l'impressione che non ci sia stata una particolare attenzione sul fenomeno shareware in Italia nell'epoca d'oro poiché la diffusione della pirateria su "floppini" era tale da non necessitare purtroppo, per l'utente medio, di avere una parte del gioco da testare.
Mi riferisco ovviamente al periodo di Wolf 3D e Doom, che tra l'altro in Italia venivano distribuiti dalla Systems, l'editore che aveva pubblicato una delle più importanti riviste per C64, Commodore Computer Club, e che aveva avuto l'intuizione di vedere nello shareware il futuro.
Tra l'altro Systems ebbe un ruolo vero e proprio in Doom, come detto da Michele di Pisa nel 2008 a Ready64: «Come editori di videogiochi shareware per PC eravamo i distributori ufficiali dei principali autori Usa ed europei, da Apogee ad Epic Megagames e ID Software. Quest'ultima casa, in particolare, ci diede non poche soddisfazioni. Di loro avevamo pubblicato "Wolfenstein" e, quando ci chiesero di co-finanziare lo sviluppo del loro nuovo prodotto, Doom, anticipando di quasi un anno il pagamento delle royalty aderimmo senza alcuna esitazione. "Doom", in effetti, cambiò radicalmente il concetto di videogioco.» https://ready64.org/articoli/leggi/idart/32/intervista-a-michele-di-pisa
Complimenti, sempre molto interessante. Sarebbe bella una puntata, ispirata dall'ultima notazione, su quanto venivano pagati i pezzi sulle riviste del settore.