I desaparecidos dei videogiochi
La brutale pratica del "delisting" è responsabile della scomparsa di prodotti che qualcuno ha pagato e dell'annullamento di anni di impegno dei team di sviluppo.
La capacità e la lucidità che servono per raggiungere un compromesso è una condizione necessaria per appartenere all’età adulta. Quella dei videogiochi digitali è una condizione che è stata imposta al pubblico, non si può quindi definire un compromesso, non c’è stata nessuna negoziazione. Avremmo potuto scegliere di non acquistare videogiochi scaricandoli direttamente nelle memorie delle console e dei computer, ma questo sarebbe valso solo nei casi in cui quegli stessi videogiochi fossero stati messi in vendita anche in edizione fisica e su supporto ottico. Non sarebbe comunque bastato, perché quei videogiochi devono adattarsi al passare del tempo aggiungendo nuovi contenuti, oppure risolvere dei problemi di cui ci si è accorti dopo che il gioco stesso è stato stampato su disco. Quei dati aggiuntivi diventano necessari e quindi l’idea di avere un videogioco perfettamente utilizzabile, sempre e comunque affidandosi al disco (o alla scheda di memoria, come accade con le recenti console di Nintendo), non è comunque realizzabile.
I videogiochi su supporto fisico esistono sempre meno, sono acquistati da un pubblico in costante diminuzione e in molti casi sono solo un portale d’accesso all’intero pacchetto di dati che, a tutti gli effetti, serve per poter giocare. In questa newsletter ho già scritto di questo stesso argomento nella puntata dedicata alle “patch day one”. Oggi ci sono tornato sopra perché uno dei risvolti positivi che vengono storicamente suggeriti, o lasciati intendere, dal mercato digitale, è la comodità dell’accesso ai videogiochi, sempre e comunque. Si perde qualcosa, ma si ottiene qualcosa: sarebbe un compromesso, insomma (solo che, come detto, non è un compromesso - tutt’al più una concessione da parte di Big Ente1. E però indovinate un po’? Esatto, non era vera manco questa cosa dell’accesso permanente, perché può tranquillamente capitare che la versione digitale di un videogioco scompaia nel nulla: oggi c’è, domani no.
Non mi riferisco alle chiusure degli store digitali, come quelli delle console di generazioni ormai oltrepassate, che con largo anticipo segnalano quando le serrande verranno calate e diventerà impossibile acquistare un gioco ex novo o, nelle situazioni peggiori, anche solo effettuare un nuovo download di uno già comprato due settimane o dieci anni prima. Nemmeno quello va troppo bene, ma si inseriscono una serie di questioni più complesse, che riguardano incompatibilità tecnologiche. Possiamo perlomeno farci consolare dalla certezza che sono limiti che stiamo ormai lasciandoci alle spalle, perché le architetture hardware delle console sono sempre più uniformi e compatibili tra di loro, anche con il passare delle generazioni2.
I giochi che spariscono nel nulla sono quelli che vengono “delistati” (“delisted” in inglese), cioè tolti dalle vetrine virtuali dei negozi come Steam, Epic Games Store, GOG, PlayStation Store, Microsoft Store ed eShop di Nintendo. Sono le conseguenze di scelte dell’editore e non strutturali, quasi mai dichiarate e tantomeno giustificate pubblicamente. Se era ben poco credibile l’idea di entrare in un Mediaworld nel 2010 sperando di trovare F-Zero GX per il GameCube (un gioco pubblicato nel 2003), nessuno si aspetta davvero di non potere acquistare, oggi, un gioco di buon successo pubblicato, anche in versione digitale, nel 2018. Ogni tanto succede e non è nemmeno così raro. Il fatto che un simile destino sia riservato più spesso a giochi di profilo minore, rende il problema meno visibile e le voci di chi se ne lamenta meno rumorose. La parte peggiore è quando ci si rende conto che il videogioco in questione era stato pubblicato solo in versione digitale e quindi il suo venir eliminato dai listini porta, di fatto, alla scomparsa in senso assoluto del gioco. Perché F-Zero GX del 2003 posso pure sperare di trovarlo, a casa di un amico, su eBay, in un negozio specializzato in usato e retrogaming. Ma Cloudberry Kingdom no. Cloudberry Kingdom è un gioco di piattaforme pubblicato solo in formato digitale da Ubisoft nel 2013, che a un certo punto si è dissolto nel nulla.
Solo in questi ultimi giorni, Sega ha tolto dalla vendita nove giochi tra i classici che vendeva su dispositivi mobile, all’interno della collana Sega Forever. Si tratta di giochi come Streets of Rage, Golden Axe, Sonic CD o Crazy Taxi, tra gli altri. E siamo tutti d’accordo che non andrebbero mai giocati su un telefono senza un controller vero e proprio, ma non è questo il punto. Per completezza: chi ha già comprato questi giochi potrà continuare a utilizzarli e sono stati disattivati gli acquisti in-app.
Poche settimane fa la testata statunitense Polygon ha pubblicato un articolo scritto da Carli Velocci, dal titolo “Cosa succede quando il tuo gioco viene delistato”. È un pezzo che si apre con la testimonianza di Cory Davis, il Director di Spec Ops: The Line, uno sparatutto a tema bellico del 2012, pubblicato da 2K e tenuto in grande considerazione per la sceneggiatura e la capacità di raccontare in maniera adulta e tutt’altro che prevedibile il tema (la sciagura) di una guerra. Dal 24 gennaio 2025 2K ha deciso di togliere dalla vendita Spec Ops: The Line. Va specificato che l’edizione su disco per PlayStation 3 non può essere utilizzata su PlayStation 5, mentre per fortuna il gioco è incluso tra quelli compatibili tra Xbox Series X|S e Xbox 360.
“All’inizio ho pensato che si trattasse di un errore o di un problema che si sarebbe risolto nel giro di qualche ora, diciamo che ero in piena fase di negazione”, ha detto Davis, “ma poi è diventato ovvio che non fosse limitato a Steam e che [il gioco] stesse sparendo anche dagli altri negozi”. Il motivo fornito da 2K, che non ha annunciato l’imminente esclusione dalla vendita del gioco, riguarda la scadenza degli accordi di licenza di alcune tracce musicali inserite nel gioco.
Uno dei casi più conosciuti di “delisting” di un videogioco, è quello di The Crew, un gioco di corse a vocazione multigiocatore pubblicato da Ubisoft nel 2014 e tolto dalla vendita il 31 marzo 2024. Dieci anni di disponibilità non sono pochi, per un videogioco che deve comunque appoggiarsi a un’infrastruttura online, che ha dei costi. E con una community che può essersi spostata nel frattempo su altri giochi, se non proprio sui due seguiti della stessa serie (The Crew 2 del 2018 e The Crew: Motorfest del 2023). Quello che viene contestato è il concetto che la proprietà del gioco non sia davvero di chi l’ha acquistato, perché The Crew non è stato reso disponibile come videogioco offline. Semplicemente chi ha comprato The Crew nel 2014, oggi non può più giocarci. E qualcosa di molto simile avviene con altri giochi pensati principalmente per le dinamiche online, è sufficiente pensare a Destiny 2 di Bungie, che negli anni ha modificato, e sostanzialmente sostituito, i suoi contenuti. Le missioni che c’erano nel 2020, quando è stato lanciato, oggi non esistono più, non sono più accessibili in alcun modo. Sono le conseguenze dell’idea dei giochi a sviluppo continuo.
GOG, che sta per Good Old Games, è lo store digitale di proprietà di CD Projekt RED, l’editore della serie The Witcher e Cyberpunk 2077. Alla fine del 2024 ha lanciato il “GOG Preservation Program”, un programma di preservazione che mira a mantenere aggiornati alcuni classici del passato, così da renderli sempre compatibili con i computer di oggi. Gli interventi vengono effettuati direttamente dallo staff di GOG ed è importante segnalare che anche i giochi che appartengono al programma e che a un certo punto vengono esclusi dalla vendita, per scelta dell’editore e non di GOG, continuano a essere aggiornati. È un’eccellente iniziativa e nei mesi passati ha interessato Warcraft e Warcraft II, due giochi di strategia in tempo reale pubblicati da Blizzard Entertainment negli anni Novanta. La stessa Blizzard, poi divenuta parte di Activision e ora di proprietà di Microsoft, ha deciso di toglierli dai listini di GOG, ma lo staff del negozio ha precisato che chi li ha acquistati potrà continuare a giocarci, oggi e in futuro.
Brandon Huffman è un avvocato dello studio Odin Law and Media ed è anche un consigliere volontario per la International Game Developers’ Association. Da tempo si occupa anche di offrire consulenza agli studi di sviluppo indipendenti che lavorano nei videogiochi. In un altro articolo di Polygon scritto di nuovo da Carli Velocci, dedicato alla complicata vicenda del catalogo dei videogiochi di Adult Swim, ha spiegato quanto sia complicato per gli studi di sviluppo tornare in controllo dei propri giochi “delistati” e riuscire a rimetterli in vendita, una volta che l’editore originale ha deciso di non avere più interesse nel farlo. Spesso i contratti che hanno legato lo sviluppo e la pubblicazione del gioco, non si sono preoccupati di regolare le conseguenze di una possibile sospensione della vendita.
È una situazione che ricorda a tutti noi, tossici sognatori, che il valore profondo di un’opera che è un’espressione dell’ingegno umano, e il rispetto che gli sarebbe dovuto, non contano poi molto. “La possibilità che un editore tolga dalla vendita un gioco è molto bassa”, dice Huffman, “perché appena lo fai, smetti all’istante di guadagnarci. Questo vuol dire che se un gioco vene delistato, in teoria è perché sta facendo così pochi soldi che i costi amministrativi sostenuti dall’editore per fare avere agli sviluppatori quel che gli spetta, sono superiori agli introiti”.
Ci sono tanti modi e fin troppe giustificazioni tecniche per la scomparsa dei videogiochi, una forma d’intrattenimento e di espressione che è intimamente collegata alla tecnologia del suo tempo (che potrebbe non essere quella dei tempi che la seguiranno). Da un po’ tocca pure fare i conti con i giochi che, di colpo, non esistono più: non solo non possono più essere acquistati, ma vengono anche destinati a un futuro di incompatibilità hardware e quindi di indisponibilità di fatto anche per chi li ha comprati. Abbiamo già parlato di enshittification?
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