Aspettative e contesto, le zavorre di alcune recensioni
Sui rischi di analizzare e valutare quello che sta attorno a un videogioco, oltre che il videogioco stesso (include Blast Corps, Donkey Kong Country Tropical Freeze e Assassin's Creed Shadows).
Il 21 marzo del 1997 Nintendo pubblicò Blast Corps, un videogioco realizzato dallo studio inglese Rare, lo stesso che aveva da poco completato la trilogia di enorme successo di Donkey Kong Country per il Super NES. L’esistenza del primo capitolo di Donkey Kong Country riassume una posizione molto precisa presa da Nintendo nel periodo della pubblicazione. Il gioco venne infatti lanciato nel novembre del 1994 e destinato, come detto, al Super NES, cioè a una console disponibile sul mercato fin dalla fine del 1990 e che apparteneva alla generazione a 16 bit. Esattamente negli stessi giorni, tra novembre e dicembre del 1994, Sega e Sony iniziarono a distribuire delle console a 32 bit di nuova generazione: rispettivamente il Saturn e la PlayStation. Con Donkey Kong Country Nintendo ammise di essere in ritardo con il suo nuovo hardware da gioco, il Nintendo 64, ma provò a mascherare quella mancanza sostenendo che il ritorno di Donkey Kong sulle scene fosse esattamente quello che serviva in quel momento al settore, ma soprattutto che potessero essere soldi meglio investiti rispetto a scommettere su una nuova generazione (per forza di cose acerba).
Nintendo ebbe ragione, perché Rare confezionò il gioco giusto al momento giusto. Donkey Kong Country intercettò anche la strana fascinazione che il settore aveva sviluppato, in quegli anni, per uno stile estetico digitalizzato. Era esploso tutto con Mortal Kombat (1992), circondato a sua volta dalla frenetica corsa ai Full Motion Video (FMV), cioè ai contenuti video all’interno dei videogiochi. Mi riferisco a contenuti video non interattivi, veri e propri filmati. Un lusso che ci si poteva permettere solo attraverso le capacità di decodifica delle nuove console come il 3DO (1993) dell’ex fondatore di Electronic Arts, Trip Hawkins, e il supporto su CD ROM che allargava a dismisura lo spazio a disposizione dei videogiochi. Donkey Kong Country venne accolto e recensito anche tenendo conto di quella particolare congiuntura di situazione e condizioni.
Il Nintendo 64 poi, a un certo punto, venne lanciato. Avvenne a partire dall’estate del 1996 in Giappone, quando in realtà quel Saturn e quella PlayStation si erano già mossi molto e bene (più la seconda che il primo). Nintendo arrivò in ritardo ma facendosi accompagnare da un peso massimo assoluto come Super Mario 64, uno dei pochi giochi la cui grandezza e portata rivoluzionaria convinsero immediatamente la critica a trattarlo come un nuovo classico. Solo che poi le officine di Nintendo rallentarono e con loro la disponibilità di nuovi videogiochi per la sorprendente console a 64 bit. Una serie di scelte controverse, prese dalla stessa Nintendo, le aveva anche alienato una fetta importante di editori indipendenti. Il risultato, per chi si era messo in casa un Nintendo 64, fu una cronica mancanza di qualcosa da comprare e giocare. Questo era il contesto che accompagnò al debutto Blast Corps, il 21 marzo 1997.
Di Blast Corps mi occupai per Game Power, un mensile specializzato tra i primi a essere dedicati ai videogiochi per console in Italia. Non mi divertii granché con quel gioco di Rare1, lo trovi tutto sommato poco più che sufficiente e pronto per essere scordato (cosa che effettivamente avvenne, per un bel pezzo). Il mio voto finale fu di 67/100. In Blast Corps l’obiettivo era distruggere tutto mentre ci si muoveva in un ambiente tridimensionale ai controlli di veicoli pesanti di vario tipo, come una ruspa o un camion. Quest’idea, non esattamente mainstream, venne messa in scena in maniera competente ma non proprio stupefacente. Blast Corps, insomma, non mi sembrò essere fatto della stessa pasta di Super Mario 642 e neppure di quella di altri giochi per il Nintendo 64 come Pilotwings 64 e Wave Race 64, tutti realizzati direttamente dagli studi di Nintendo. Da appassionato che aveva venduto la sua intera collezione di videogiochi per potersi permettere un Nintendo 64 importato dal Giappone solo pochi mesi prima, vissi Blast Corps scosso da ripetute ondate di noia e delusione.
Una situazione simile si verificò molti anni più tardi, all’inizio del 2014. Anche quella volta a essere finita in una brutta situazione era una console di Nintendo, il Wii U. Ereditario dell’enorme patrimonio del Wii, quello con il telecomando e Wii Sports che sta ancora da qualche parte a casa vostra - dei vostri genitori, dei vostri zii, dei vostri cugini - il Wii U era riuscito a sprecare tutto in un nulla. Per uno strano attorcigliarsi di eventi, in quel momento così complesso torna a girare il nome di Donkey Kong Country. Quella volta, però, va aggiunto un pezzetto: il suffisso Tropical Freeze.
Donkey Kong Country Tropical Freeze è il secondo episodio del rilancio della serie, iniziato nel 2010 con Donkey Kong Country Returns per il Wii. Entrambi i giochi furono realizzati da Retro Studios, una proprietà di Nintendo con sede in Texas, negli Stati Uniti, molto nota per aver creato la serie di Metroid Prime tra il 2002 e il 2007. Come già al Nintendo 64, anche al Wii U nel 2014 sarebbero serviti dei giochi importanti, che riuscissero a farsi notare per l’impatto sul settore in senso assoluto, cioè artistico e di riscontro nel grande pubblico (cosa che è riuscita spesso a Nintendo e da cui non può smarcarsi, se vuole rimanere Nintendo), cosa che mancò drammaticamente in quella breve parentesi. La serie di Metroid Prime ha assolto con grande efficacia il primo compito e meno il secondo: ha vissuto di grandi pacche sulle spalle e risultati economici tutto sommato modesti. Ma quando nulla sembra funzionare e nessuno si fa più prendere dall’idea che Wii U possa in qualche modo impensierire i numeri fatti segnare dalla concorrenza (che in quel momento riunisce le generazioni PlayStation 3 e PlayStation 4 di Sony e Xbox 360 e Xbox One di Microsoft), allora va benissimo anche “solo” un bel videogioco. E che delle vendite si preoccupino gli azionisti.
Questo, di nuovo, è il contesto dentro cui si ritrovò a nuotare Donkey Kong Country Tropical Freeze, cercando di non annegare tra le rimostranze di chi, da Retro Studios, a quel punto voleva un nuovo capitolo di Metroid e non certo un altro gioco di piattaforme in stile anni Ottanta e Novanta (quel invece era Donkey Kong Country Tropical Freeze). Scrissi la recensione di quel gioco per l’edizione italiana di IGN e tra le altre cose misi dentro questa riflessione:
Tropical Freeze arriva a tre anni e mezzo di distanza, dopo che di giochi di piattaforme in 2D se ne sono (ri)visti in numero importante, dalla saga di New Super Mario Bros. al rilancio di Rayman, passando attraverso un numero spropositato di ottime interpretazioni indie della materia e in attesa, caso mai, pure di quel Yarn Yoshi sempre per Wii U. Le ultime grandi uscite, dedicate alla console da salotto Nintendo, portano i nomi proprio di Super Mario 3D World e, poco prima, Rayman Legends. Insomma, non è il momento per aspettare con la bava alla bocca un altro gioco di piattaforme. Il che rende il compito di Tropical Freeze, suo malgrado e con un pizzico di ingiustizia, piuttosto complesso.
Il voto finale fu di 8.4/10 e forse fu un po’ ingeneroso nei confronti di un gioco che trattava con estrema cura e conoscenza la materia, quella delle sequenze di zompettamenti e dell’esplorazione di una mappa su due dimensioni. Ma per quanto provassi a non farlo, per forza di cose finì per farmi intorbidire dall’atmosfera che appesantiva la condizione del Wii U e di Nintendo tutta. La mia valutazione, insomma, non era del tutto rilassata e non venne condotta in condizioni ideali. Certo, possiamo tranquillamente dire che quelle condizioni ideali non ci sono mai e che forse nemmeno è auspicabile che ci siano. E cioè che ogni testo esiste nella sua forma perché ha uno specifico contesto che lo accompagna e, anzi, lo genera.
Quando ho scritto di Donkey Kong Contry Tropical Freeze questa cosa mi era più chiara di quanto non lo fosse nel 1997, nel momento di analizzare Blast Corps. Credo di aver imparato qualcosa in quei tre lustri e più di esperienza accumulata. Eppure non credo che la mia recensione di Donkey Kong Country Tropical Freeze sia proprio giusta, corretta, totalmente rispettosa del lavoro fatto da Retro Studios. Questo non vuole dire che credo che possa esistere una recensione giusta e una sbagliata, in senso assoluto. Credo piuttosto che un’analisi possa avere una sua logica, una coerenza, una completezza d’informazioni che la renda utile e un’interpretazione della materia che la renda interessante… o che possa mancare di una o di tutte queste cose. Ma questo non ha a che fare con l’idea che ci sia una valutazione giusta e una sbagliata, magari collegata a un parere e a uno specifico range di voti.
Parlando di recensioni dei videogiochi, una delle banalità che siamo quasi (quasi) riusciti a lasciarci alle spalle è che debba essere “oggettiva”. È una scemenza che non vale la pena mettersi a discutere di nuovo ora, a quarant’anni e passa da quando l’uomo della pietra vidoeludico si mise a incidere con uno scalpello la sua prima critica di Galaga. Da frequentatore di lungo corso di critica musicale, è un’accusa che non ho mai visto muovere in quell’ambito. Forse perché l’idea di partenza di dare un giudizio e un voto alla musica è ancora più squinternata di quanto non lo sia se si parla di videogiochi (questo in effetti non mi sento di escluderlo). Comunque sia: una recensione non può essere oggettiva, ma può probabilmente ambire a essere equilibrata e a concentrarsi sui meriti e le colpe del videogioco e non di ciò che lo ha preceduto o che lo seguirà.
A tutto questo ho pensato mentre leggevo i titoli e poi i pezzi dedicati in questi giorni ad Assassin’s Creed Shadows, pubblicato da Ubisoft per PC, PlayStation 5 e Xbox Series X|S. Scusate, sono stato impreciso: “mentre leggevo le recensioni di Assassin’s Creed Shadows”. Il gioco fa parte di una serie di straordinardio successo e arriva nel momento più complicato dell’intera storia del suo editore3. Se non ne sapete nulla o credete di non saperne abbastanza, Il Post ha pubblicato un riassunto della situazione4 e messo in ordine i motivi per cui Assassin’s Creed Shadows ha un peso specifico differente.
La potenza con cui il discorso su Ubisoft mi sembra sia tracimato dentro le recensioni di Assassin’s Creed Shados, però, non mi convince. Anzi, mi ha riportato alla mente proprio i due passi falsi delle mie recensioni di Blast Corps e Donkey Kong Country Tropical Freeze (e sono sicuro al mille per cento che avrei potuto farne altri di simili). Non riesco nemmeno a convincermi che la cosa possa essere andata un po’ più in là, fino ad arrivare a voler assecondare una sorta di narrazione già esistente per cui Ubisoft ormai è un editore che propone giochi deludenti, in varia misura e con pochissime eccezioni che, appunto, rimangono tali.
La recensione di Assassin’s Creed Shadows pubblicata da Multiplayer.it, realizzata da Pierpaolo Greco, mette subito in chiaro di quale peso specifico stessi parlando poco sopra. Greco (o chi ha compilato il sottotitolo) si chiede se il gioco “basterà”. Basterà a fare cosa? A soddisfare gli appassionati della serie? A interessare il grande pubblico, come è sempre stato con i capitoli precedenti? O, come immagino, a “decretare il futuro di Ubisoft”? Non ho un’idea fortissima a riguardo, ma sono più portato a credere che alambiccare sui risultati industriali di un videogioco non sia la premessa ideale per valutarne meriti e demeriti.
Così, invece, scrive Gianluca Arena su Spaziogames, come semplice introduzione al suo articolo:
In uno dei momenti più difficili della storia recente di Ubisoft, al centro di voci di acquisizione e di proteste degli azionisti, e dopo un paio di rinvii che hanno fatto storcere il naso alla fanbase, giunge finalmente sul mercato Assassin's Creed Shadows, ultima fatica in ordine di tempo dal director Jonathan Dumont e dal suo team Ubisoft Quebec.
Qui sotto, invece, ci sono le prime righe di Daniele Dolce per The Games Machine:
Due protagonisti per Assassin’s Creed Shadows, come i due volti di un videogioco diviso tra una visione creativa ben definita e le politiche di un publisher alla ricerca di una cresta dell’onda che manca ormai da troppo tempo.
Non sono convinto che questi approcci indichino chissà cosa di sbagliato, quindi mi limito a evidenziare una generale distanza con alcune tra le testate più importanti negli Stati Uniti. Le recensioni di IGN e Polygon non solo non si aprono con riferimenti alla condizione aziendale di Ubisoft, ma nemmeno ne parlano in un secondo momento. Per dovere di cronaca (anche se non sto facendo cronaca), segnalo che la recensione di Gabriele Laurino di Everyeye si è mossa nella stessa direzione.
Continuerò a pensare a tutto questo e cioè al contesto che accompagna una recensione, perché mi sembra un argomento almeno vagamente interessante per chi scrive di videogiochi. E se lo è anche per chi legge di videogiochi, tanto meglio per voi che vi siete sorbiti questa puntata della newsletter.
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Sempre lui, sempre il #premioGAC.
Che poi, chi lo dice? Vai a sapere che nel maggio del 1989 Ubisoft non fosse stata sull’orlo della chiusura, per dirne una.
Sono quasi certo, purtroppo, che sia stato scritto da Zampini, Alessandro.
Ma infatti secondo me si poteva citare la situazione di Ubisoft ma in generale, come ho detto, pensare un gioco possa eventualmente ripianare mesi, se non anni, di scelte mi pareva troppo.
Le testate di videogiochi italiane sono più interessate al contorno che al contenuto, il risultato è palese con AC. Ma c'è anche un po' di accanimento terapeutico nei confronti di Ubisoft, visto che magari non sfornerà tutti capolavori, ma non ho mai visto fetecchie o disatri come ad esempio la prima uscita di "Driveclub" o "Crackdown 3". In Italia sparlare fa rima con gudaganre, infatti le testate di videogiochi stanno approcciando al modello Novella 2000.