Metroidvania, pregiudizi e l'orgoglio di Prince of Persia: The Lost Crown
Il gioco di Ubisoft ha sorpreso la stampa italiana e Zelda si nasconde dietro al mito di Castlevania: Symphony of the Night.
Ciao,
anche questo venerdì vi tocca una puntata delle Parole dei videogiochi. Lo spunto di partenza è uno dei giochi più interessanti lanciati nel 2024, che ho finito proprio in questi giorni. Si tratta di Prince of Persia: The Lost Crown (e ringrazio Ubisoft per l’omaggio), che si ricollega a un filone molto apprezzato soprattutto negli ultimi quindici anni, quello dei cosiddetti “metroidvania”. È l’occasione giusta per spiegare cosa siano a chi ancora non lo sa, in maniera concisa. L’unica alternativa era fare una cronistoria del genere, ma non è cosa adatta a una newsletter. Però c’è un passaggio significativo, ripescato da un’intervista di dieci anni fa, in cui si affrontava proprio lo stesso argomento. E questo dovrebbe interessare anche chi già sa cosa sia un metroidvania.
Buona lettura!
Cose da sapere:
Assieme all’agenzia di localizzazione per cui lavoro, ho partecipato più volte a progetti di Ubisoft tra cui, in maniera molto superficiale, Prince of Persia: The Lost Crown e, più sostanziale, Skull and Bones (parlo anche di lui, in questa puntata).
I buoni e i cattivi
Partiamo dall’inizio, da quello che è successo un paio di mesi fa, quando Ubisoft ha pubblicato Prince of Persia: The Lost Crown. Erano quasi quindici anni che non veniva prodotto un nuovo gioco dedicato al personaggio creato da Jordan Mechner nel 1989, cioè da quando Assassin’s Creed ha di fatto sostituito la serie di Prince of Persia nella “dieta” delle uscite ricorrenti di Ubisoft. Sfogliando idealmente le recensioni che la stampa di settore italiana ha riservato a Prince of Persia: The Lost Crown, viene pure il dubbio che fossero quindici anni che il gigante francese dei videogiochi non proponesse qualcosa di apprezzabile.
“Finalmente Ubisoft”, dice Spaziogames, che riassume un po’ il sentimento a cui facevo cenno. Ubisoft è da tempo nell’elenco dei cattivi, dove finiscono quelli che (a torto o a ragione) hanno infilato due passi falsi uno di fila all’altro. Che siano giochi “sbagliati” o notizie poco rassicuranti sull’ambiente di lavoro, la sostanza non cambia. È difficile scavalcare il muro che separa l’elenco dei cattivi da quello dei buoni e alla fine può anche succedere che qualcuno ci rimanga solo per abitudine, perché nessuno ha avuto interesse a tirarlo fuori. Voglio dire che i preconcetti ci sono anche quando si tratta di presentare un videogioco e determinare, per quanto in piccolo, il clima che si respira attorno a questa o a quella etichetta. E non sto parlando per forza e solamente di Ubisoft.
Everyeye pensa che The Lost Crown sia un ottimo Prince of Persia, “finalmente”. Non che ci siano stati altri Prince of Persia di infima qualità dal 2010 a oggi, anno dell’uscita di Prince of Persia: The Forgotten Sands, ultimo gioco del principe. The Forgotten Sands viene riassunto da un 75% di media su Metacritic, mentre quello appena prima (chiamato semplicemente Prince of Persia, pubblicato nel 2008), arriva a 81% e quindi è nello stesso campionato di The Lost Crown (86%). Mi pare che l’atteggiamento sferzante sia esagerato e largamente ingiustificato, se ci si riferisce solo alla storia recente o semi-recente di Prince of Persia.
Ma Castlevania sognava Zelda
Prince of Persia: The Lost Crown è un gioco d’azione, ma non solo. Nel gioco preparato da Ubisoft Montpellier e diretto da Mounir Radi ci sono tutti gli elementi caratteristici di quelli che vengono chiamati “metroidvania”, perché la formula applicata è quella elaborata prima da Metroid (Nintendo, 1986) e poi adottata da Castlevania: Symphony of the Night (Konami, 1997).
Un’indicazione utile: se sai già a cosa ci si riferisce con il termine “metroidvania”, salta con convinzione i prossimi due paragrafi.
Un gioco metroidvania somiglia parecchio a un gioco di piattaforme di vecchio stampo, di quelli con una certa predilezione per gli scontri con i nemici. Quello che lo rende differente è che la progressione non è lineare: gli ambienti e i livelli da percorrere non si susseguono in maniera regolare e intuitiva e quando vengono conclusi, non vengono consegnati al dimenticatoio (o, alla meglio, alla voglia di riaffrontarli tanto per il gusto di farlo). In un metroidvania c’è un ambiente unico, suddiviso in aree o regioni, con sezioni centrali che le collegano. Chi gioca non si limita a iniziare e a finire la perlustrazione di un’area, ma torna sui suoi passi spesso e volentieri, perché non c’è un traguardo da raggiungere, solo un’indicazione sommaria (a volte intuita, a volte esplicitata dal gioco) del punto da raggiungere per far sì che succeda qualcosa. La parte interessante sta nel capire come fare a raggiungerla.
Mentre esplori liberamente il pianeta incontrerai porte chiuse, superfici fuori dalla tua portata e aree troppo pericolose per Samus. Man mano che ottieni potenziamenti per le tue armi e le tue abilità, riuscirai non solo a superare questi ostacoli, ma anche a scoprire nuovi sentieri e scorciatoie.
Metroid Dread - Nintendo.it
A questo scopo è determinante la dotazione di abilità e poteri a disposizione del personaggio principale. In ogni buon metroidvania (ma probabilmente anche in quelli meno buoni), le capacità di movimento e di combattimento si espandono gradualmente, dando un accesso progressivo e costante a nuove aree da esplorare. C’è tutto un gioco psicologico che viene promosso dalla progettazione della mappa di un gioco simile: gli ideatori fanno intravedere cosa c’è là, dove chi gioca non ha ancora i mezzi per arrivare, giusto per fargli pregustare il momento in cui succederà. Poi, quando effettivamente ci si è meritata l’espansione di quei mezzi di movimenti e attacco, eliminando un nemico o capendo come navigare una parte labirintica o chissà che altro, la mente prova a ripescare tutti quei frammenti di ricordo, quelli relativi a ogni singolo passaggio che ora si può “risolvere”. L’equilibrio tra attesa e ricompensa è centrale in un gioco metroidvania. Il cambio di ritmo tra la fase di studio (prima) e il frenetico ribattere palmo dopo palmo il mondo di gioco, galvanizzati dalle nuove abilità, è esaltante.
Igarashi ammette che durante la fase di sviluppo di Symphony of the Night la parola composta “metroidvania” non esisteva ancora e che il team descriveva il gioco come un “gioco 2D di azione ed esplorazione”
Per un bel pezzo nessuno ha pensato di chiamare in questo modo, metroidvania, il genere di appartenenza di questa specifica interpretazione dei giochi di piattaforme. Non mi pare sia successo prima del nuovo millennio o, addirittura, prima dell’esplosione della scena indipendente (quindi dopo il 2005, come minimo, ma probabilmente verso il 20101). La mia esperienza personale è questa: Wonder Boy III: The Dragon’s Trap (Sega, 1989) è il primo gioco in cui, mentre saltellavo e affettavo gente, mi è stato chiesto di ripercorrere porzioni di gioco e concesso di farlo, a volte, solo dopo aver potenziato il personaggio. Che in quel caso equivaleva e modificarne l’aspetto, le dimensioni e le peculiarità (un minuscolo topo che si infilava in qualche anfratto o un elegante uccello che volava fino a quelle costruzioni là nel cielo).
Come già detto, il 1986 è l’anno di Metroid, ma è anche quello di Castlevania. I due giochi debuttano in formato disco, per la periferica Famicom Disk della versione giapponese del Nintendo Entertainment System, poi trasformati in cartucce standard per il mercato occidentale. Quel Castlevania, però, non ha ancora nulla a che vedere con Metroid e infatti si adeguerà al concetto di gioco di piattaforme e combattimento esplorativo solo dieci anni dopo con lo strabiliante Symphony of the Night.
Il Producer di Castlevania Symphony of the Night, dopo il successo del gioco, è diventato il responsabile della serie pubblicata da Konami per un lungo periodo, si chiama Koji Igarashi. In un’intervista del 2014 a Engadget, Igarashi ammette che durante la fase di sviluppo di Symphony of the Night la parola composta “metroidvania” non esisteva ancora e che il team descriveva il gioco come un “gioco 2D di azione ed esplorazione”. Ma la parte più curiosa di quella intervista è un’altra:
Il nostro obiettivo era rendere più longevo il gioco e quindi ci è venuto in mente Legend of Zelda, un gioco d’azione pieno di esplorazione. Praticamente tutto il team, io incluso, era composto da grandi fan del gioco e volevamo creare qualcosa di molto simile. Ecco, ora sapete che l’ispirazione originale [per Castlevania: Symphony of the Night] in effetti non fu Metroid.
Igarashi dice anche di essere venuto a conoscenza dell’utilizzo del termine metroidvania un paio di anni prima di questa intervista, quindi attorno al 2012.
È un nome che mi piace e lo rispetto. Mi piace il significato che riassume. È perfettamente adeguato, quindi mi rende orgoglioso sapere che il nome di Metroid viene avvicinato a quello di Castlevania fino a diventare una parola sola, mi piace davvero molto.
Quando Nintendo ha trasportato la filosofia di design di Metroid nelle tre dimensioni, con Metroid Prime (2002), “metroidvania” era ancora là da venire. Gli elementi di Metroid Prime rimasero sostanzialmente immutati rispetto a quelli di Super Metroid (1994), a quel punto il capitolo più recente della serie, anche strutturalmente identico all’originale del 1986. Per Metroid Prime Nintendo ha parlato di First Person Adventure.
Questo, comunque, succedeva prima che la scena indipendente e il modo in cui oggi (e non da oggi) si discute online di videogiochi, permettessero a un termine probabilmente nato dal basso, per iniziativa popolare diciamo, di diventare canonico. Il che non toglie che Nintendo si guardi bene dall’utilizzarlo, come dimostrato dai materiali a corredo del recentissimo Metroid Dread (2021).
Per chiudere, un paio di letture interessanti che si occupano dello stesso argomento.
Stop Calling Games ‘Metroidvania’
Joshua Rivera della redazione australiana di Kotaku pensa che dovremmo smetterla tutti. Sono d’accordo con lui in più punti.
Quale è la differenza tra Metroid e i metroidvania?
Il forum di GameFAQS propone una riflessione che potrebbe sembrare senza senso, ma che invece stimola alcuni spunti interessanti.
Quante “A” ci sono in Prince of Persia?
Negli ultimi mesi Ubisoft è stata più volte al centro dell’attenzione. Prima proprio grazie a Prince of Persia: The Lost Crown, disponibile dalla metà di gennaio, poi con Skull and Bones, lanciato un mese più tardi. Ed è nei giorni precedenti al debutto del complicatissimo progetto a sfondo piratesco, che si è accesa la polemica su un’uscita di Yves Guillemot, CEO di Ubisoft. Se seguite con costanza le ultime notizie del settore dei videogiochi, ve la ricorderete di sicuro:
Per i detrattori del gioco e di Ubisoft (consapevoli o inconsapevoli, vedi la prima parte di questa puntata) non poteva esserci occasione migliore per una nuova selva di frecce avvelenate. Naturalmente è Guillemot a essersela cercata, per quanto possa risultare comprensibile la spinta a difendere e promuovere un prodotto della compagnia che dirige, per mille motivi. Il solito Aftermath ha affrontato l’argomento con la completezza e la leggerezza che richiede (qui, nell’articolo di Nathan Grayson).
L’argomento è ancora caldissimo, non tanto quello di Skull and Bones, ma della grandezza dei giochi. La demoralizzante sequela di licenziamenti di massa che è sempre più sotto gli occhi del pubblico e che ha caratterizzato gli ultimi dodici mesi (almeno) del settore, sta favorendo riflessioni sulla sostenibilità di un modello che vedeva in una crescita inarrestabile l’unica strada percorribile dalle major. È sempre andata così, dopotutto. Non si ricordano inversioni di tendenza e The Legend of Zelda: A Link to the Past del 1991 era sicuramente più “grosso” (e costoso) di The Legend of Zelda del 1986. Le ambizioni rimangono sostanzialmente le stesse, ma ricalcolate adeguandosi a risorse tecnologiche più capaci e a un mercato in continua espansione. Però, forse, non sta più funzionando e la crescita a dismisura non è più l’unica prospettiva.
Non ci andrebbe bene se una parte consistente di videogiochi cosiddetti “AAA” fosse bella da vedere ma non proprio bellissima? Ricca ma non enorme?
Prince of Persia: The Lost Crown rappresenta un caso di studio perfetto. L’annuncio è stato dato sei mesi prima del lancio effettivo del gioco, che è stato accolto benissimo dalla critica. All’apparenza, quella sviluppata da Ubisoft Montpellier non è una di quelle avventura epiche che segnano un’annata. Ma perché? Prince of Persia: The Lost Crown è un gioco che funziona in maniera eccellente e che può richiedere alcune decine di ore prima di essere “risolto” in ogni sua sfida ed esplorato in ogni suo anfratto. Quella che gli manca è la colossale presentazione di progetti che sono costati molto di più, forse troppo di più. Quello che ha, di “sbagliato”, è uno stile di gioco visivamente datato, con quell’inquadratura e i movimenti 2D che lo inquadrano perfettamente nel sentiero più classico dei metroidvania, ma che rimandano anche a generazioni passate di videogiochi. Quindi questo Prince of Persia non può essere preso a modello? Non ci andrebbe bene se una parte consistente di videogiochi cosiddetti “AAA” fosse bella da vedere ma non proprio bellissima? Ricca ma non enorme? E però annunciata e messa in commercio in sei mesi, ma facciamo anche un anno: comunque non i due, tre, quattro anni di molti grandi nomi di ieri e oggi (e chissà se anche di domani).
A me un modello così, a cui potremmo pure togliere una di quelle tre “A” (fingendo che il discorso abbia per noi un qualche senso), andrebbe benissimo.
BONUS!
Il docugioco di Karateka
Jordan Mechner, ideatore di Prince of Persia, è stato anche l’autore di Karateka, un gioco del 1984. Sul finire del 2023 Digital Eclipse, etichetta specializzata in conversioni e rimasterizzazioni di giochi del passato, ha pubblicato The Making of Karateka. È il secondo progetto a cui viene applicata la formula del documentario interattivo, come lo definisce Digital Eclipse. Non è solo un documentario, non è solo un videogioco, ma è esattamente come andrebbero riproposti i nomi del passato. Interviste, documenti originali e versioni giocabili si alternano e danno man forte, nel riuscitissimo tentativo di raccontare tutta la storia di un videogioco e non solo il punto di arrivo. Un lavoro encomiabile, disponibile per tutti i formati principali per circa 20 €.
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“Dammi una mano, dammi una mano / Ad incendiare il piano padano” (CCCP)
Il termine metroidvania potrebbe essere stato coniato dalla redazione dell’ormai defunto magazine americano 1UP, attorno al 2007.
The Making of Karateka purtroppo è passato un po’ in sordina. Forse è anche normale che sia così visto il tipo di progetto però... Grazie per averne parlato