Ciao,
questo è un nuovo appuntamento con Le parole dei videogiochi. I contenuti non sono esattamente inediti, ma ho pensato che potesse avere senso proporre anche attraverso una vera e propria puntata della newsletter, alcune delle “note” che ho già pubblicato sulla app e il sito di Substack. Si possono leggere anche nell’apposita sezione sul sito della newsletter (è sufficiente cliccare qui).
Piuttosto che lasciarle lì dentro, dentro la sezione Note e quindi sostanzialmente invisibili a chi non la frequenta, ho preferito incollarle qua sotto e dare vita a un poké di parole. Le note che ho scritto negli ultimi mesi, da quando esiste il “formato” delle note di Substack, sono tutte pensate per interessare chi legge la newsletter. L’argomento è lo stesso, anche se può cambiare l’approccio e l’analisi è di sicuro meno approfondita.
Spero siano interessanti, buona lettura!
Molyneux e i middleware (12 aprile)
Oltre che per diffondere pareri e newsletter altrui, uso le note per lanciare nel Substack-verso altre faccende legate ai videogiochi, che altrimenti non finirebbero nella mia newsletter. Si può cominciare da qualche estratto da riviste di un po’ di anni fa.
Edge (Autunno 1999, #77)
Charles Cecil (Revolution Software, Broken Sword): “Do you believe in middleware?”
Peter Molyneux (Lionhead, Black & White): “[Smiles] Well, I think it’s a short-term solution.”
Ai margini dell’edizione del 1999 dell’ECTS (European Computer Trade Show), la rivista Edge riunisce sei luminari del videogioco inglese, per parlare del presente e del futuro del settore. Il geniale Molyneux, e non c’è alcun sarcasmo, dice la sua sui middleware, all’epoca una soluzione che stava solo iniziando ad affacciarsi sul mercato. I middleware sono pacchetti software che aiutano a creare videogiochi, tra le altre cose evitando al team di sviluppo di dover elaborare sistemi ex novo (motore 3D, motore fisico, etc.), iter che rappresentava lo standard nel momento in cui Molyneux dava questa risposta. Oggi la stragrande maggioranza dei videogiochi è realizzata attraverso middleware come quelli rappresentati dai motori di Epic (Unreal Engine) o Unity.
Le parole di Molyneux non servono come spunto per indicarlo e iniziare a ridergli dietro, ma per capire quanto sia stato veloce e (in parte) inatteso il successo dei middleware nei videogiochi.
L’arrosto di PlayStation 2 (15 aprile)
Il 2000 è stato un anno selvaggio per i videogiochi. Lo scontro tra quello che era il Dreamcast di Sega e ciò che si pensava sarebbe stata PlayStation 2 di Sony, fu tanto breve quanto brutale. Avete presente la scena di Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta in cui Harrison Ford affronta il tizio con la spada e mentre questo è tutto intento a mostrargli le sue abilità, Indy se ne libera sparandogli senza nemmeno farci troppo caso? Ecco.
Edge (aprile 2000, #83):
[…] there has never been a machine whose specs and aesthetics and software support and marketing positioning and future promise and outlandish hype mix to form such a formidable brew that every other gaming hardware manufacture must look on and, if only fleetingly, consider packing it all in.
Nei giorni in cui PlayStation 2 viene distribuita in Giappone, tra scene di reale isteria di massa, l’editoriale di Edge riassume in maniera molto efficace l’allineamento delle stelle a favore di quello che chiamavamo “il monolite nero”. Nel paragrafo dopo si chiede anche se sia “tutto fumo e niente arrosto”, ma la storia si è già espressa.
Per approfondire:
Chiedimi chi era Rave War (22 aprile)
Non è mai troppo tardi per scoprire che una serie famosissima di videogiochi, ha rischiato di farsi conoscere con un altro nome. Mentre cercavo una scatola di CD (tuttora mancante, un dolore difficile da descrivere), mi sono ritrovato di fronte a un blocco di numeri di Computer + Videogames, edizione UK.
Nel numero di febbraio 1995 (#159), si copre a tappeto tutto quanto si muova attorno a PlayStation e Saturn, aggiungendo anche una spruzzatina di 3DO, perché un po’ ci credevano ancora.
Prima di arrivare alle recensioni di Ridge Racer (96/100) e Clockwork Knight (74/100), c’è un trafiletto su un picchiaduro 3D in sviluppo presso gli studi di Namco. Dalle tre immagini buie e poco definite, anche perché scansionate da altre riviste (si faceva così, ai tempi), si capisce chiaramente che si tratti di Tekken, peraltro già disponibile nelle sale giapponesi a quel punto. E invece il gioco viene identificato come Rave War.
Anche la statunitense Electronic Gaming Monthly lo aveva chiamato nello stesso modo, nel numero di dicembre 1994. È possibile che la fonte di C+VG fosse proprio quella (le immagini coincidono e i tempi sono perfetti). Rave War compare anche in alcune illustrazioni pubblicitarie per la versione arcade, in cui comunque è già chiaro che il nome finale sia Tekken.
Secondo alcuni commenti pubblicati dai lettori di Unseen64 (unseen64.net/2010/07/05/tekken-rave-war…), Namco avrebbe pensato di modificare il nome di Tekken in Rave War solo per il mercato occidentale, tornando poi sui suoi passi.
Ultima curiosità: la scritta “Rave War” compare sulla fiancata dell’auto in primo piano nella copertina di Ridge Racer.
Quant’è brutta la trasmogrificazione (26 aprile)
Trasmogrificazione è probabilmente la parola più brutta che si possa trovare, oggi, in un videogioco. Se siete fortunati, non vi ci siete mai imbattuti, ma dato che è in mezzo a colossi da milioni e milioni di copie vendute, l’ipotesi di averci avuto a che fare non è così remota.
Ho provato a capire da dove sia saltata fuori e perché ora ce la dobbiamo sorbire, ma i risultati sono talmente sconfortanti… che ho deciso di escluderla dalle possibili parole degne di una puntata della newsletter.
Da quanto ho potuto ricostruire, il debutto dovrebbe essere avvenuto in casa Blizzard, tra Diablo II e World of Warcraft. A meno di grossi equivoci, con trasmogrificazione si intende la possibilità di modificare esteticamente un elemento da utilizzare con il proprio personaggio (l’arma o una parte dell’armatura, per capirci), senza toccare le caratteristiche tecniche di quell’elemento. Quindi se le statistiche di attacco/difesa dell’elmo con l’emblema della prugna sono le tue preferite, ma vorresti che fosse visivamente uguale all’elmo con le alucce… puoi farlo. Grazie alla, cough, trasmogrificazione.
Non è facile trovare testimonianze del termine nei dizionari italiani. Anzi, è assente praticamente da tutti. In quello di Sansoni, utilizzato anche dal servizio del Corriere della Sera, se ne parla come una trasformazione, in un contesto magico. Però, ecco, potevamo anche farci andare bene la stessa “trasformazione” o, perlomeno, non tenere per buona trasmogrificazione a prescindere dal contesto. Lo dico perché mi è capitato di vedermela passare davanti in Cyberpunk 2077 e insomma…
L’unica cosa buona di trasmogrificazione è che fa tornare in mente il transmogrifier di Calvin & Hobbes.
Nota bene: dato che lavoro per un’agenzia di localizzazione di videogiochi e ho citato un gioco che non è stato seguito da questa agenzia (Cyberpunk 2077), segnalo subito che pure in uno altrettanto “grosso” su cui ha lavorato l’agenzia per cui lavoro, è stato inserito trasmogrificazione (Assassin’s Creed: Valhalla).
La partenza a razzo di GameCube (17 maggio)
28 novembre 2001, periodo di lancio di GameCube, la console di Nintendo che succede a Nintendo 64. Le cose partono bene e il comunicato stampa ha i toni trionfanti da giornata post-elettorale (già che siamo in tema).
La morte di permadeath (1 agosto)
Una parola dei videogiochi che non si legge più tanto spesso, anzi quasi mai, è permadeath. Nasce da permanent death, morte permanente, e per chi non bazzica le lande digitali dei videogiochi, può sembrare un filino ridondante. Al di là degli zombi, la morte tende effettivamente a essere permanente.
Nel 2012 il mensile EDGE (#244) discuteva di permadeath con il team di Ubisoft Montpellier, in quel periodo al lavoro su ZombiU, uno dei giochi che avrebbe accompagnato Wii U di Nintendo nei negozi da lì a qualche settimana.
L’idea [della “permadeath”] nasce dai temi classici delle storie di zombi. Basta pensare ai film del genere: di solito entro la fine il cast è stato decimato. Non sai mai chi sia il vero eroe. Nel remake di Zack Snyder de L’alba dei morti viventi, ti ritrovi a pensare: “sarà l’infermiera a sopravvivere? Oh no, forse il poliziotto allora?”. Di solito muoiono tutti. Passare da un personaggio all’altro ci è sembrato il modo migliore per esplorare questa dinamica. In ZombiU la vita è breve e se fai cazzate, non ti rialzi più.
Gabrielle Shrager - Story design director di ZombiU (Ubisoft Montpellier)
Il gioco di Ubisoft prevedeva che il personaggio selezionato dal giocatore, e lanciato verso un’apocalisse zombi di stampo londinese, non avesse seconde possibilità. Una volta morso a morte dai non-morti (pardon), si passava a un altro personaggio e tutto l’equipaggiamento rimaneva su quello zombificato. La buona notizia è che si poteva andare alla sua ricerca, farlo fuori e recuperare quanto si era perso.
Oggi la morte permanente è ormai data per assodata in qualsiasi gioco roguelike e roguelite, in varie forme. Dieci anni fa era un meccanismo che non aveva ancora compiuto il grande salto dai giochi più piccoli e indipendenti, alle grandi scommesse delle major. Non serve più parlare di permadeath, è sufficiente essere certi che ci sia chiarezza sulla natura roguelike/roguelite del gioco. E per fortuna, perché “permadeath” è un termine davvero orrendo.
Videogiochi #1, ottobre 2003 - Editoriale (2 agosto)
Ci siamo distratti un istante e sono trascorsi 30 anni. Ci siamo guardati intorno e molto era cambiato. Tranne la passione. Non solo per i videogiochi, passione comune e che ci accompagna da sempre, ma anche per le riviste di videogiochi. In questi anni abbiamo vissuto molto e abbiamo letto molto. Migliaia di riviste disseminate su centinaia di scrivanie in decine di redazioni diverse. E nonostante il tempo trascorso, non abbiamo dimenticato nessuna di quelle riviste. Non può essere solo per la passione. Dev’esserci qualcosa che, misteriosamente, ci lega a questi pezzi di carta. Ma chissà mai cosa…
Le riviste di videogiochi sono diverse dalle altre. Tra le loro pagine trovano spazio la ragione e la passione, la realtà e il sogno, il passato e il futuro. E qualcuno potrà dire che tutto questo non è un privilegio, ma è comune anche a magazine di altro genere. La diversità, in effetti, è altrove. Non è nella tecnologia, elemento comune anche alle riviste di automobili, di home-video o di computer. Non è nemmeno nella fantasia, elemento ricorrente anche nelle riviste di cinema, di musica o di fumetti. È altrove. Forse proprio in quello che il videogioco, diversamente da ogni altro media, è in grado di promettere: l’interazione.
Nell’interazione si realizza la prospettiva di essere protagonisti, la possibilità di mettersi in gioco, la facoltà di decidere e di agire. Dall’interazione nascono tutte le esperienze che abbiamo vissuto davanti allo schermo con un joypad in mano. E il loro ricordo, molto spesso, è forte quanto quello della vita reale. Perché un film o un libro, anche i più importanti, possono rimanere nel ricordo in modo indelebile. Ma un videogioco, per sua stessa natura, investe ogni esperienza con un’altra luce. Sono le nostre storie…
La verità è che le riviste di videogiochi sono un varco verso altri tempi e altro luoghi. Un album di fotografie che, articolo dopo articolo, riporta alla memoria le nostre esperienze virtuali, nelle quali noi siamo stati i protagonisti, ci siamo messi in discussione, abbiamo deciso e agito. Forse è proprio questo che ci lega a questi pezzi di carta. Ci siamo distratti un istante e sono trascorsi 30 anni. Ci siamo guardati intorno e molto era cambiato. Ma per guardare indietro abbiamo anche le nostre riviste di videogiochi…
Fotografare la vita, reale o virtuale, è un compito difficile. Eppure è proprio quello che, da oggi, vuole provare a fare Videogiochi. Se un giorno vorrete, in futuro, potremo ritrovarci insieme, e raccontarci qualcuna di quelle storie vissute sullo schermo, con un joypad in mano. E se la memoria dovesse tradirci, recupereremo un album di fotografie. Magari qualcuno dei migliaia lasciati a prendere polvere su centinaia di scrivanie. Magari proprio quello che avete ora tra le mani. Non dimenticate di scattare fotografie, il viaggio ha inizio…
In-game advert (20 agosto)
Quasi vent’anni fa, nel settore dei videogiochi si parlava anche di pubblicità e in qualche periodo si è parlato molto di pubblicità.
Pareva che l’integrazione di varie forme di sponsorizzazione all’interno dei videogiochi fosse imminente e inevitabile. La causa era il dilatarsi dei tempi e quindi dei budget richiesti dallo sviluppo dei videogiochi e l’effetto, o uno degli effetti possibili, sarebbe stato il ricorrere alle pubblicità all’interno dei giochi, creando una nuova fonte a cui i produttori avrebbero potuto abbeverare il loro conte corrente.
In Edge di gennaio 2006 (#158), la rinomata redazione interroga a riguardo Geoff Graber, CEO di Double Fusion, una società che si presentava come “fornitore di pubblicità dentro ai giochi” (“in-game advert provider”).
J Allard (uno dei punti di riferimento in Microsoft all’epoca di Xbox e Xbox 360, ndM) pensa che le pubblicità potranno portare a un abbassamento del prezzo dei giochi. È d’accordo?
È una grande opportunità e sarebbe fantastico se succedesse. Ma non penso che avverrà subito, come potete intuire: all’inizio gli editori prenderanno la pubblicità come un’altra fonte di guadagno, fino a quando capiranno quanto potrà essere importante. Ma sul lungo periodo possiamo immaginarcelo come il mercato televisivo, in cui ci sono contenuti supportati dalle pubblicità e altri premium - c’è spazio per entrambi.
Pensa che questo porterà a due edizioni per i giochi, una da 30 £ e senza pubblicità e una da 20 £ con la pubblicità?
Lo immagino, ma per come la vedo io le pubblicità miglioreranno il gioco, quindi si dovrebbe essere felici di pagare di più per averle. Se il gioco ha delle pubblicità che infastidiscono il giocatore, allora sto facendo male il mio lavoro.
Non è successo nulla di tutto questo, forse perché si sono trovate altri canali pronti a pompare soldi nelle casse (microtransazioni e contenuti aggiuntivi), forse perché il mercato ha diversificato enormemente le proposte dal punto di vista del prezzo finale ai clienti (con l’esplosione del mercato digitale e della scena cosiddetta “indie”).
Geoff Graber venne sostituito come CEO di Double Fusion solo pochi mesi dopo l’intervista a EDGE. Nel suo profilo Linkedin non compare alcun riferimento all’esperienza in Double Fusion.
Alla prossima poké di note delle Parole dei videogiochi. Potrebbe succedere quando meno te lo aspetti (ma probabilmente tra sei mesi). Se invece non ti va di aspettare che ti consegnino un nuovo poké, puoi seguire la pubblicazione delle nuove note a questo indirizzo o attraverso la app di Substack.