Non esiste più il Game Over
La scomparsa delle schermate di fine partita (e pure di quelle di inizio).
A marzo del 2001 l’editore Studio Vit mise fine alla storia editoriale di Zeta, il mensile che sei anni prima si era presentato come “l’ultima parola sul divertimento interattivo”. Ci sono volte in cui le redazioni non sanno che quello che sta arrivando in edicola sarà l’ultimo numero della loro rivista, ma in quel caso era chiaro a tutti. Il messaggio in copertina, infatti, era tristemente eloquente: “Game Over”. La scritta richiamava la grafica delle schermate di fine partita di un gioco anni Ottanta: pixel bianchi su un funereo campo nero. Per una rivista come Zeta, scegliere la copertina era un processo che includeva una parte di rischio. Voleva dire scommettere su un videogioco piuttosto che un altro e l’obiettivo era, vi sorprenderà, risultare interessante e sperare di attirare l’attenzione di chi altrimenti non l’avrebbe comprata. Tutti discorsi che non hanno più senso quando hai già deciso che non ci saranno altre uscite.
Game Over è anche il titolo che il giornalista David Sheff scelse per il suo libro dedicato alla storia di Nintendo. Quel libro, pubblicato verso la metà degli anni Novanta, rivelò per la prima volta una sorprendente quantità di dettagli sulla storia di Nintendo: le persone che la guidarono e ci si mossero dentro, i prodotti che vennero realizzati, le idee che li sostenevano. Ho letto Game Over circa venticinque anni fa, quindi non escludo del tutto la possibilità di essermi scordato qualcosa, ma mi pare che il titolo non avesse alcuna attinenza con i contenuti. O meglio, l’unico legame era con i videogiochi.
Sono due le formule che sono state associate ai videogiochi con una tale forza da diventarne degli slogan: Press Start e Game Over, l’inizio e la fine di una partita. Nonostante Game Over sia stato utilizzato da dispositivi meccanici o elettronici fin da decenni prima della diffusione dei videogiochi, tra cui i flipper, ha perfettamente senso che siano questi i confini scelti per delimitare l’esperienza di un videogioco in un qualsiasi racconto “pop”, cioè in una comunicazione destinata a un pubblico generico. Tutti conoscono il significato di Game Over, tutti sanno cosa indica. Usare Game Over è efficace quanto utilizzare quegli stucchevoli effetti sonori da gioco in stile Space Invaders per accompagnare qualsiasi sequenza in cui compaia qualcuno che gioca, o lo si voglia anche solo suggerire. Per un tempo che mi è sembrato personalmente interminabile, la televisione o la radio hanno appiccicato quegli effetti a tutto. Pure quando giochi come Space Invaders erano stati pensionati da dieci o vent’anni. Ecco, Game Over ha quel tipo di immediatezza universale.
Eppure Game Over, e in misura minore anche Press Start, fanno ormai parte del passato dei videogiochi. Per molti motivi sensati, l’idea che una partita finisca per davvero e che una completamente nuova sia l’unico possibile esito, è oggi inconcepibile e probabilmente inaccettabile. Alcune settimane fa ho affrontato i primi minuti di gioco di Final Fantasy VI (Squaresoft per il Super NES, 1994) ed evidentemente non ho capito come funzionasse il sistema di salvataggio: dopo una battaglia gestita con molta superficialità, ho visto lo schermo sfumare verso il nero e poi ho assistito infastidito e sono stato preso in contropiede alla comparsa della scritta Game Over. Non ci sono più abituato. “Ma davvero devo rigiocarmi quindici minuti di avventura da zero?”, mi sono domandato pigramente.
Qui potrei metterci uno scambio avuto oltre vent’anni fa con un collega/amico, Paolo Paglianti. Quando è successo io scrivevo per Nintendo la Rivista Ufficiale e lui per Giochi per il Mio Computer. All’incirca nello stesso periodo eravamo “al lavoro” su Metroid Prime, io, e Call of Duty, lui. Entrambi giochi che appartengono allo stesso genere, apparentemente, cioè quello degli sparatutto con visuale in prima persona, ma che danno due interpretazioni della materia quasi agli antipodi l’una dell’altra. Gli raccontavo di una mia serata con Metroid Prime, in cui un passaggio particolarmente nodoso mi aveva obbligato a rifare più volte un pezzetto di gioco (perché costretto ogni volta a ricominciare dall’ultima "stanza di salvataggio”).
Paolo trovava inaccettabile la mancanza di frequenti salvataggi automatici in Metroid Prime e benediceva quelli di Call of Duty, ricordandomi anche l’inciviltà di non poter effettuare un salvataggio dei progressi in qualsiasi momento, il cosiddetto “salvataggio veloce” che su molti giochi per computer si richiamava con un tasto della tastiera. Su console non esisteva nulla di simile. Un po’ perché la scuola del videogioco su console era ancora quella giapponese, nata nelle sale giochi in cui vigeva la legge del gettone e della moneta, antitetica all’idea stessa di mantenimento di quanto già fatto in precedenza. E poi anche perché la mancanza di memorie per la registrazione dei dati nella maggior parte delle console, in quel momento solo l’Xbox di Microsoft aveva un disco fisso, portava a un’abitudine molto differente. Con le schede di memoria ci si interfacciava in specifici momenti, come le stanze di salvataggio di Metroid Prime.
Infine: Metroid Prime, e non solo lui, non avrebbero comunque preso in considerazione la possibilità di farti registrare posizione e stato nel gioco in qualsiasi momento. La tensione che si creava quando messi di fronte alla possibilità di perdere tutto quanto fatto dalla stanza di salvataggio precedente, era parte del tessuto di cui era intrecciato il game design del gioco. Call of Duty, che a quel punto era il primo della serie, si dimostrava invece molto più occidentale e, con il senno di poi, pure molto più moderno.
Potrei aver divagato. Riprendo il filo.
In queste settimane sto giocando ad Assassin’s Creed: Shadows e a Doom The Dark Ages. Nessuno dei due prevede il Game Over. Un po’ perché a un certo punto si è pensato che si poteva giocherellare con quel messaggio, tanto da personalizzarlo e contestualizzarlo. In Assassin’s Creed: Shadows chi gioca e soccombe ai colpi dei nemici è “desincronizzato” e può scegliere di ripartire dall’ultimo salvataggio o dal checkpoint più recente. In Doom The Dark Ages succede qualcosa di molto simile: non c’è neanche la preoccupazione di scegliere un’espressione particolare per indicare che si è stati falciati, solo la scelta tra ripartire dall’ultimo checkpoint (il momento in cui il gioco ha salvato la posizione e i progressi in maniera automatica) o abbandonare. I checkpoint sono i nuovi Game Over.
Il videogioco di questi decenni è fatto per continuare e non interrompersi. Al massimo viene sospeso e si possono perdere alcuni (pochi) progressi, ma il Game Over è tabù al pari dei discorsi sulla morte nella vita di tutti i giorni. I giochi cosiddetti soulslike, cioè che riprendono la filosofia di game design introdotta dalle serie di Demon’s Souls (2009) e di Dark Souls (2011), sono noti per la brutalità con cui ricordano ai giocatori non tanto che gli scontri con i nemici possono essere complicati… ma che portano spesso e volentieri a far perdere i progressi ottenuti, in un sistema che prevede una frequenza di salvataggi molto ridotta rispetto all’abitudine generale.
Un’altra scuola particolarmente apprezzata, in questi anni, è quella dei giochi roguelite e anche in questo caso c’è una rilettura dell’idea di Game Over. I giochi roguelite sono costruiti attorno all’evento della sconfitta di chi gioca, una certezza che si verifica con una generosa frequenza. La trovata dei roguelite è stata quella di concedere una sorta di eredità che si tramanda da una partita all’altra, anche se apparentemente il Game Over porterebbe a un riavvio da zero della partita (ma non è così, appunto).
Game Over e Press Start non ci sono quasi più e per il secondo c’entra soprattutto l’assenza dei pulsanti Start da qualsiasi controller attualmente in commercio. Come ramificazione dei discorsi a cui è collegata, la trasformazione dell’espressione Game Over è molto più interessante rispetto a quella della scomparsa, solo formale, del comando Press Start.
CONTINUE?
Le parole dei videogiochi torna tra pochi giorni con una puntata che comincia dove questa sta finendo: dal Game Over e dal termine di una partita o di un gioco. Arriveremo altrove, più precisamente nel campo degli “Extraction Shooter” e della curiosa situazione di Marathon e Arc Raiders, spiegata attraverso le opinioni di un ospite. A presto!
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Penso che l'ultimo numero di ZETA avesse voluto citare l'ultimo numero del ben più famoso Zzap!. Per la precisione il numero 84 del Dicembre del 93. Cito la cosa per il solo motivo che, circa 20 anni dopo, il desiderio di fare videogiochi (è di raccontarli) in un certo modo è così forte che Zzap! ritorna ad essere pubblicato. Magari sarà soltanto nostalgia ma certi meccanismi di gameplay racchiudono ancora una forte magia. E rivederli riproposti in una scena indie così fiorente, anche se solo a 8 bit riempie il cuore di gioia.
Sicuramente con la sensibilità di oggi l'autosalvataggio (o quello manuale libero) risulta quasi imprescindibile e un gioco come Metroid Prime farebbe storcere il naso a più d'uno.
Eppure io ricordo ancora la sensazione di grande sollievo e soddisfazione nel raggiungere una stanza di salvataggio dopo averla scampata più volte, magari trascinandosi dentro con pochissimi HP.
Chiaramente era un sollievo "artificiale" creato proprio da quel meccanismo di design voluto (un po' come il sollievo e l'appagamento di chi ha appena terminato una lunga corsa, dopo fatiche e sofferenze autoinflitte).
Tutto questo per dire che sarà certamente un metodo di salvataggio superato, ma mantiene ancora dei vantaggi a livello di tensione e di esperienza.