Drop, il premio da sfoggiare in società
Una puntata molto breve su un termine che sta finendo un po' ovunque.
Wonder Boy in Monster Land (Sega, 1986) è stato uno dei videogiochi che mi ha convinto a chiedere ai miei una console. Mi capitava di incrociarlo nei bar e nelle sale giochi, in un periodo in cui giocavo anche a Bubble Bobble (Taito, 1986) e a Double Dragon (Technos Japan, 1986). Per qualche tempo, forse non più di alcuni mesi, quella è stata la tripletta dei giochi che avrei voluto poter avere in casa, liberamente accessibili e quindi svincolati dalla tassa dei gettoni. Di questi, solo Wonder Boy in Monster Land poi seguì il percorso che avevo immaginato: un paio di anni più tardi mi venne regalato un Master System della Sega e, quasi subito, anche quel gioco.
Giocandoci assieme a mio fratello, scoprimmo poco per volta molti dei suoi moltissimi segreti. Wonder Boy in Monster Land era un gioco figlio dei suoi tempi, con una struttura 2D che oggi aiuta a renderlo immediatamente incasellabile tra i giochi d’azione tipici degli anni Ottanta. A differenza di tanti altri, però, aveva una vocazione per l’avventura, che lo rese molto differente dal capitolo precedente (Wonder Boy, 1985). E ogni avventura che si rispetti è piena di misteri. Completamente a caso, o forse assistendo alla partita di qualcuno al bar, scoprimmo che saltando in corrispondenza di punti specifici dei livelli, sarebbero comparse dal nulla delle monete o addirittura dei sacchetti pieni di ricchezze. I soldi erano fondamentali (anche) in Wonder Boy in Monster Land, perché solo con le tasche belle piene potevi comprarti le armature più resistenti, le spade più affilate, i calzari più ergonomici e le pozioni essenziali per rimandare la triste dipartita.
Monete e sacchi potevano anche apparire dopo la sconfitta di un nemico e quando a cadere era un mostro di fine livello, zampillavano fuori così tante monete che prenderle tutte era impossibile. Erano le ricompense assegnate a chi aveva fatto un buon lavoro. Ed erano anche quelli che oggi, non da oggi ma nemmeno dal 1986, chiameremmo “drop”. La logica che sta alla base del termine è fin troppo lampante ed è quella che permette all’inglese di passare agevolmente da un verbo a un sostantivo, senza stare lì a farsi troppe paranoie.
Dieci anni dopo, all’interno di Diablo (Blizzard, 1997), i drop assunsero un ruolo più importante. Quello che restava a terra erano armi e armature, strumenti di attacco e difesa essenziali per affrontare il gioco, costituito da una serie di labirinti sotterrannei. Se non è stato l’evento che ha segnato la definitiva trasformazione di quel tipo di risorsa nei videogiochi, come minimo ha attivato una serie di meccanismi che poi hanno portato a quel risultato. E il risultato è che ci sono videogiochi in cui quello che viene offerto come ricompensa dai nemici o, in generale, da un’ambiente ostile al giocatore, non è più un mezzo di sostentamento o un simpatico extra, ma il fine per cui si sta giocando. In World of Wacraft (ancora Blizzard, 2004) così come in Destiny (Bungie, 2014), e più in generale nei giochi multiplayer, la qualità del drop che ci si mette in tasca al completamento di una missione è probabilmente più interessante ed emozionante di quanto si è fatto nella missione vera e propria.
I videogiochi con delle dinamiche sociali, in cui può essere ritenuto importante il modo in cui il proprio avatar viene valutato/rispettato dagli altri giocatori in un dato momento o da una parte della community più in generale, spingono ovviamente a fare di tutto per assicurarsi i drop più preziosi (come caratteristiche di gioco o anche sotto il profilo estetico). Certo, poi armi e armature sono comunque gli strumenti per poter uscire vincitori da sfide ancora più impegnative, ma è come se si rimandasse sempre di una casella il traguardo: l’obiettivo reale rimane quello di accrescere la propria strumentazione, l’obiettivo immaginario quello di completare tutte le missioni. Non per nulla il sogno di tutti i giochi multiplayer per masse di giocatori, è di continuare per sempre.
I drop sono poi anche quelli di Twitch, il servizio di streaming che è nato dedicandosi ai videogiochi e che ha mantenuto un legame stretto con il settore. Così le interazioni tra chi trasmette le sue partite e il pubblico possono portare ad assegnare a quest’ultimo degli elementi di gioco (di solito succede perché dietro c’è l’editore di quel gioco che cerca di moltiplicare le trasmissioni che i content creator possono dedicargli). Non mi sento di escludere che il linguaggio dei videogiochi sia alla base dell’utilizzo sempre più frequente di “drop”, con questa accezione, anche in altri ambiti. Come per esempio quando gli anglofoni, e non solo loro, si riferiscono al lancio di un disco o di un nuovo paio di sneaker. Nel calderone ci possiamo buttare pure “shadow drop” (qui c’è una puntata dedicata a questa espressione).
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