Demake: videogiochi che tornano indietro
In un mare di remake, ci sono le increspature quasi impercettibili di chi immagina una storia differente. I demake spediscono i videogiochi nel passato.
Di Ed Fries in questo momento mi viene in mente una foto scattata durante l’evento di presentazione dell’Xbox, la prima console di Microsoft. Risale all’inizio del settembre del 2000 e assieme a Fries ci sono Peter Molyneux e J Allard. Fries e Allard sono stati definiti in più occasioni “co-fondatori” di Xbox, Peter Molyneux è uno dei game designer di maggior successo della storia. Fries venne messo alla guida del progetto Xbox e lasciò Microsoft quando l’esperienza di quella console stava giungendo al termine, nel 2004, con i riflettori che intanto venivano frettolosamente spostati per illuminare il suo erede: l’Xbox 360.
Cercando materiale per questa puntata, ho ritrovato casualmente Fries, ma in una veste molto differente da quella di manager che si muove nelle stanze dei bottoni. Nel 2010 il nostro ha realizzato Halo 2600, una rilettura del classico sparatutto bellico sci-fi del team di sviluppo Bungie che divenne istantaneamente il più grande successo dell’Xbox. Fries si era speso personalmente perché Microsoft acquisisse Bungie alla fine degli anni Novanta e il legame con il brand non si deve essere allentato più di tanto. Halo 2600 è un gioco per l’Atari 2600, la macchina da gioco inizialmente messa in commercio nel 1977 (da Atari, ovviamente). L’esperimento non commerciale di Fries è in tutto e per tutto quello che oggi, non da oggi, definiremmo un “demake”. Cioè la riduzione di un videogioco a una sua versione compatibile con i limiti tecnici o perlomeno lo stile estetico tipico di una generazione di console precedente a quella su cui è stato inizialmente lanciato il gioco. Dall’Xbox del 2001 all’Atari 2600 di oltre vent’anni prima, ci passa ben più di una generazione.
Di demake, termine che gioca con il ben più popolare “remake”, ne esistono svariati e sono per la grande maggioranza dei casi dei progetti amatoriali e comunque non destinati al commercio. Sono dei divertissement, se vogliamo. In un certo senso provano a gettare un ponte tra il presente e il passato, in cui le carreggiate però assicurano il passaggio in entrambe le direzioni. Il demake di Bloodborne (Sony, 2014) per la prima PlayStation (1994) porta un videogioco quasi contemporaneo fino a un’epoca non sua, è vero, ma al tempo stesso lancia una suggestione: e se il tempo dei videogiochi di quella sorprendente ed epocale PlayStation non fosse mai finito? Se il suo percorso fosse proseguito imperterrito fino ai nostri giorni? Se avessimo ancora sei, quindici o vent’anni, quelli che avevamo quando fissavamo il T-Rex del demo disc della “PS-X”, come ci apparirebbero i nuovi videogiochi?
I demake sono solo una questione di nostalgia quindi? No, ci mancherebbe. Come minimo sono anche un test che sfida le abilità di chi cerca di replicare il feeling di un videogioco, avendo mezzi a disposizione grandemente limitati rispetto a quelli che hanno dato forma all’originale. Letta così, la realtà dei demake li avvicina alle conversioni impossibili del passato, quando i grandi successi da bar e sala giochi venivano brutalmente sfigurati, nel tentativo impossibile di risultare riconoscibili su un Commodore 64 o su un Nintendo Entertainment System. Con inspiegabile regolarità Sega include nelle sue raccolte di videogiochi dal passato la versione per il Mega Drive, la sua console a 16 bit del 1988, di Virtua Fighter 2 (1994), uno dei primi giochi di combattimento 3D, basato su un hardware di cui pure il successore del Mega Drive, il Saturn (1994), faticava a tenere il ritmo.
C’è un articolo molto ben fatto e pieno di informazioni che la rivista Wireframe ha dedicato a queste conversioni di un passato più o meno recente. In apertura si cita il lavoro fatto dalla squadra che, nel 2001, si occupò di martellare dentro a una cartuccia del Game Boy Advance il motore di gioco della versione per la PlayStation di Tony Hawk’s Pro Skater 2. Si era partiti da un ambiente di gioco tutto tridimensionale e si era arrivati a una curiosa ma apprezzabile riformulazione del concetto, attraverso una visuale fissa e a una struttura apparentemente 2D. L’articolo è stato tradotto e riproposto da Ludica, consiglio appassionatamente la lettura (clicca qui).
Quelle, però, rimangono a mio modo di vedere delle conversioni e non dei demake. Ciò che fa di questi ultimi quello che sono, è un salto indietro nel tempo atleticamente molto più significativo. Non ci si limita a guardarsi a fianco, per capire quale altra piattaforma attiva sul mercato potrebbe garantire un qualche introito extra. I demake si pongono l’obiettivo di riportare alla luce stili estetici e interpretazioni della materia quasi dimenticate, forse commercialmente improponibili. Non è l’unico motivo per cui rimangono confinate al regno dei progetti amatoriali, quello principale è prevedibilmente l’impossibilità di poter ottenere licenze e diritti da chi li detiene e che, mi pare, non ha alcun interesse in questa forma di tributo. Che però io trovo interessante sotto tanti punti di vista e che possiamo far rientrare nella famiglia, molto numerosa, delle tante deviazioni dal (sanguinante) modello dei videogiochi ad altissimo budget.
Se pure qualcuno tra chi ne ha facoltà (e diritti) decidesse di provarci, non sono sicuro che troverebbe un pubblico tanto folto e così ben predisposto economicamente da poter garantire ai demake un pezzetto del mercato. Stiamo comunque parlando di quello che nella migliore delle ipotesi è un azzardo stilistico di difficile comprensione e, nella peggiore, la vittoria definitiva del nostalgismo senza limitismo.
Volendo essere nostalgici non mi dispiacerebbe, invece, vedere nascere e fiorire il concetto di cover applicato ai videogiochi. Mi intriga l’idea di quello che un team di sviluppo del 2024 potrebbe combinare mentre prova a “suonare” a modo suo il Donkey Kong del 1981. Ma questa ce la teniamo per una puntata in cui mi invento le parole.
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A me i demake appassionano moltissimo e, come dico sempre, i titoli AA e AAA dovrebbero includere sempre il demake del gioco, magari in pixel art 2D, come materiale bonus, affidandone lo sviluppo magari ad uno studiolo indipendente o per fare crescere gli sviluppatori junior dello studio.
Sono proprio i vincoli hardware ad avere ispirato alcune delle migliori idee di game design della storia e qualche volta estetiche iconiche. Viceversa, l'assenza di limiti alle risorse di oggi ha schiacciato vari titoli alla dimensione di una marmellata indistinta.