Come gioca chi scrive di videogiochi
Configurare il gioco, scegliere la durata delle sessioni, scambiarsi pareri e decidere se è il caso di arrivare fino alla fine.
Ciao,
vi va una puntata piena di ospiti? La risposta conta fino a un certo punto, perché comunque questa abbiamo, per oggi e fino a venerdì prossimo: una puntata piena di ospiti. Sotto alla foto della gente in fila (per comprare una PlayStation 2 negli Stati Uniti) troverete un gruppo di persone che ritiene sensato spendere un sacco di ore e rovinarsi dozzine di giochi solo per parlarne ad altra gente. Le premesse sono così-così, ma magari funziona. Fatemi sapere.
Buona lettura!
Sedersi e cominciare (con un aiuto a fianco?)
Uno degli interessi delle Parole dei videogiochi, intesa come newsletter, è soffermarsi su come funzioni il lavoro di chi scrive di videogiochi. Nelle oltre settanta puntate inviate è già successo che mi occupassi della cosa, nell’autoconvinzione (ancora presente) che questo sia un lavoro interessante. O che lo sarebbe, se le condizioni non fossero demoralizzanti (ma questo è un altro discorso che non mi va più di fare). Qualche mese fa vi ho presentato quello che c’è stato dietro a una mia recensione, quella di Super Mario Bros. Wonder. I nuovi arrivati che sono interessati possono leggere quella puntata cliccando qui.
Oggi riparto più o meno dallo stesso punto, ma l’attenzione è tutta sulla parte della prova di un gioco e per nulla su quella della scrittura del proprio articolo. Non ve ne parlo io o, almeno, non sarò il solo. Per rendere le cose un po’ meno arroganti, ho chiesto a tre persone che scrivono di videogiochi di raccontarmi quello che fanno o non fanno quando giocano, sapendo che da quelle sessioni devono trarne un’analisi.
Ho un bloc notes destinato ad alcuni dettagli e sensazioni che mi appunto mentre gioco. Non lo faccio sempre, anzi: per oltre dieci anni non l’ho proprio mai fatto. Poi, nel 2008, ho iniziato e ora, quando sento che il gioco o l’evento lo richiede, mi fermo e scrivo qualcosa. È un’abitudine molto banale, ma è un possibile sintomo di quanto sia differente il modo in cui gioca chi deve poi assemblare una critica del gioco e chi, invece, se lo sta solo godendo (si spera). Essere pronti a mettere in pausa per non rischiare di scordarsi qualcosa che si ritiene utile indica che, comunque, non stai solo giocando. Stai facendo continuamente roteare gli occhi verso ogni angolo dello schermo e stai provando a capire perché e come sta succedendo, quello che sta succedendo. La prima a dirmi la sua sull’argomento è Giulia Martino, che ama definirsi “game critic” per Multiplayer, Final Round e Il Manifesto.
Se lavoro a una recensione sì, [prendo] tantissimi [appunti]. In generale li articolo in diversi comparti (storia, gameplay, prestazioni tecniche e così via), ma non sono appunti presi in modo rigido, e spesso si intrecciano fra loro. Prevalentemente si tratta di impressioni, o magari qualche frase del gioco che mi lascia un’emozione forte, o dinamiche che si sviluppano in maniera emergente nel corso della mia prova e che voglio assolutamente ricordare, o su cui desidero riflettere prima di scrivere il mio pezzo.
Ma al di là del fatto che ognuno di noi viene pagato sottobanco (con differenti tariffe a seconda del voto accordato e della rilevanza della testata su cui finirà l’articolo1), non siamo tutti uguali. Marco Mottura di Final Round prende appunti, mentre gioca?
Quasi mai. Se c'è proprio qualcosa che mi colpisce o che devo ricordarmi di menzionare, tipo un passaggio particolare o un aggettivo che potrebbe stare bene per descrivere quell'elemento specifico me lo annoto, ma tendenzialmente no.
Ci vuole per forza l’intervento di un terzo ospite, per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. E invece Diego Cinelli di IGN si prodiga in un gioco di equilibri che non mette il punto alla vicenda.
Se ci fossero tempi più dilatati per le recensioni troverei [il prendere appunti] indispensabile, ma talvolta (con la combinazione di gioco particolarmente breve e tempo particolarmente ridotto) l'esperienza rimane talmente fresca che risultano quasi superflui.
Serve essere tutti sulla stessa barca?
Rassicurati tutti sul fatto che l’esperienza di due persone che giocano allo stesso videogioco è per forza di cose differente e che una recensione non ha alcuna pretesa di portare la verità nel mondo o di mettere un punto a un argomento, credo che sia comunque giusto provare ad avvicinare quelle due esperienze. Quello che intendo dire, in maniera meno ingarbugliata, è che sono convinto che posso fare qualcosa per provare a giocare in condizioni vagamente simili a come giocherà chi mi legge. Il che, per me, vuole dire preoccuparsi di due accorgimenti: provare il gioco con testi e voci in italiano (se disponibili) e mantenere le impostazioni standard (livello di difficoltà e schema del sistema di controllo, per cominciare).
Marco Mottura non utilizza lo stesso approccio:
Tendo a giocare in modalità prestazioni (framerate >>>> grafica) e a livello di difficoltà più alto del "normale" perché, secondo me, il Normal di oggi non è mai abbastanza sfidante.
Ma se poi chi legge non ha intenzione di giocare a un livello di difficoltà superiore a quello standard, che succede? La valutazione di quale esperienza offerta dal gioco avrà letto? Ho chiesto a Marco di approfondire:
Chi mi legge mediamente sa che giocatore sono, anche perché ormai il nostro pubblico è piuttosto selezionato (e di solito abbastanza hardcore). Spesso se trovo una difficoltà adeguata – vedi Prince of Persia, l'ultimo – segnalo nel testo quella che per me è la migliore spiegando il perché.
Avere una maggiore consapevolezza del pubblico a cui ci si rivolge permette di preoccuparsi di meno quando ci si allontana dall’esperienza “media”, sempre che ne esista una. O almeno direi che è credibile che sia così e che un approccio simile non sarebbe ideale se si scrive per una platea più eterogenea o meno appassionata.
La schermata delle opzioni è sempre la mia prima destinazione, quando inizio un nuovo gioco. Poi finisce spesso che non tocco nulla, ma sapere cosa si può fare e cosa non si può fare, anche al di là delle esigenze personali del momento, è importante (ma nelle mie recensioni tendo a parlarne troppo poco, questa cosa va risolta). Sempre sull’argomento, Giulia Martino:
Cerco di giocare con la difficoltà per comprendere come è stato effettuato il bilanciamento, e do un’occhiata abbastanza approfondita alle impostazioni grafiche. Le prestazioni tecniche mi interessano fino a un certo punto, ma guardo sempre a come gli sviluppatori si sono regolati per la presentazione del loro gioco da un punto di vista audiovisivo, e sono piuttosto attenta alle impostazioni di accessibilità, talvolta molto approfondite (come nel caso di The Last of Us Parte II).
Per il verbale: a precisa domanda, le cavie gli ospiti chiariscono che in linea di massima provano i giochi anche con testi e voci in italiano.
Finito? No, ma voi non lo saprete mai
Mi sono tenuto per l’ultima parte della tavola rotonda improvvisata una delle possibili pietre dello scandalo: chi è chiamato a valutare un gioco, deve per forza di cose finirlo? Il dubbio richiede l’applicazione di un minimo di logica, dato che non ha alcun senso farselo venire di fronte a un gioco sportivo o a un servizio “live” in continua espansione (e qui andrebbe formulato un nuovo sistema di valutazione, ma ne parliamo un’altra volta). Sono convinto che ci sia una parte di pubblico che ritiene l’aver completato il gioco una condizione imprescindibile per una corretta analisi, qualsiasi cosa si intenda con “corretta”. E credo anche che, in molti casi, si rischi di dare fin troppa importanza alla parte più rumorosa dei lettori e che questo preciso argomento riesca ancora oggi a dimostrare che c’è una certa distanza tra critica e pubblico generale. Giulia Martino:
[…] penso che con l’esperienza si realizzi che non sempre il completamento di un gioco è necessario per poter scrivere un pezzo critico valido. Che poi, con completamento cosa si intende? L’aver sbloccato tutti i finali? L’aver platinato un gioco? O è sufficiente aver concluso la storia principale una volta? È un concetto molto scivoloso, molto sfuggente.
Parlando della necessità o meno di finire un gioco (nel senso di arrivare al termine della sua “storia” principale), c’è un risvolto potenzialmente antipatico: se non succede, va detto? Beh, certo che sì. Quando abbiamo lanciato IGN in Italia, tutta la redazione è stata subito convinta di dover includere nelle recensioni un riquadro che chiariva le modalità di gioco che avevano generato quella valutazione, incluso quanto si era progrediti nel gioco e il tempo impiegato per farlo (se possibile). Spazio a Marco Mottura:
Mediamente ritengo essenziale portare a termine il gioco, ma mi sembra soprattutto giusto nei confronti dello sviluppatore e dell'utente finale. Poi in rarissimi (ne ricordo forse 2) casi ho scritto una recensione senza aver portato a termine il gioco, ma quando è successo l'ho comunque esplicitato nel testo per l'eccezionalità della cosa.
Ho evitato di ricordare a Marco che abbiamo passato un bel pezzo di un pomeriggio a Colonia, in attesa della pioggia e della Gamescom, a discutere di questa cosa del finire o non finire i giochi da recensire. Diversamente, gli avrei dovuto anche segnalare che sono già passati oltre dieci anni e non sono ancora pronto ad ammetterlo. Procediamo.
Diego Cinelli aggiunge una variabile a cui non avevo mai pensato, molto interessante:
Specialmente quando si ha poco tempo a disposizione, se devo scegliere se arrivare a buon punto giocando come farei se non dovessi recensire il prodotto e invece correre come un pazzo pur di arrivare ai titoli di coda non ho grossi dubbi: solo uno dei due modi mi porta ad avere un'idea non inquinata di quello che un gioco ha da offrire.
Il ritmo di gioco è un altro degli aspetti su cui ho chiesto ai tre convenuti di riflettere. È un elemento che spesso prescinde dalla libertà decisionale del critico, che semplicemente non ha sufficiente tempo a disposizione per adottare un qualsiasi approccio che non sia: “gioca il più possibile, per più tempo possibile”. A dettare condizioni tutt’altro che invidiabili sono le lame degli embarghi che oscillano sulla testa e le dimensioni deformate e scoraggianti di una buona parte dei giochi di maggior rilievo dei grandi editori. Insomma: i cosiddetti giochi “AAA” sono spesso dei mappazzoni, potenzialmente gustosi, ma che possono finire per uscire dalla teglia come un impasto troppo lievitato (per mille, comprensibili, motivi). Ecco, ma se invece il problema dell’embargo non ci fosse? Se il tempo a disposizione non mancasse, quale sarebbe il ritmo adottato dai tre?
Non c'ho più l'età per le sessioni monstre da 8/10 ore, ma che scherzi? Incastro il gioco tra le altre cose che devo fare per lavoro, detto che, se poi una cosa mi prende molto (è successo per dire con l'ultimo Prince of Persia o con Armored Core), capita che magari ci spenda sopra più tempo del previsto. Senza però toccare eccessi da pro player coreano che proprio non mi appartengono più – e va BENISSIMO così.
Marco Mottura
[…] mi piacciono le sessioni lunghe, ma trovo che ci siano prodotti che richiedono di posare il controller più spesso di altri. Certe volte è fisiologico, altre credo rappresenti qualcosa di cui, nel bene e nel male, è interessante parlare in una recensione. Non siamo gli unici ad avere problemi di tempo: anche l'utente finale dovrà trovare delle finestre di tempo libero in cui incastrare un nuovo videogioco, per cui direi che ha molto senso dare loro un'idea.
Diego Cinelli
Dipende. Dai miei impegni, dalle tempistiche, da quanto il gioco mi prende. In generale, svolgo un lavoro di selezione molto approfondito per capire quali videogiochi mi potrebbe interessare recensire, quindi spesso vengo davvero assorbita e gioco anche per serate intere.
Giulia Martino
E quale è il rapporto con i pareri degli altri? C’è chi ha la sensazione che, anche involontariamente, potrebbe essere influenzato nel suo giudizio da quanto letto in giro, o da uno scambio di opinioni con un collega? A me questo sospetto rimane sempre, anche se credo che nella maggior parte dei casi in cui sono stato “esposto” a idee altrui prima di scrivere una recensione (in percentuale pochissimi), non ci sia stato un “travaso” delle opinioni esterne dentro le mie. Però il dubbio mi rimane, più che altro mi resta addosso l’esigenza di sapere che in nessuna parte del cervello può essere rimasto appiccicato quello che ho letto altrove.
È stato confortante scoprire che funziona allo stesso modo anche per Giulia Martino (“Di mio non sono solita ricercare confronti: potrei sentirmi influenzata e preferisco che questo non succeda”), per Marco Mottura (“preferisco formare un'idea che sia il più possibile personale e soggettiva, non viziata dal pensiero altrui, perché voglio che sia la mia recensione”) e per Diego Cinelli (“preferisco evitare di farmi influenzare!”).
Questa è solo una parte dei dilemmi che si pone chi viene investito del sacro compito di esporre la sua opinione a un pubblico. Pensateci, prima di lamentarvi del mio 9 a Resident Evil 6!
DESOLATION ROW
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