Di Geometric Interactive - PC, PlayStation, Xbox (Game Pass), Switch
Ancora oggi la vocazione dei videogiochi sembra essere, in prevalenza, quella di creare mondi nuovi, più che occuparsi di quello che esiste fuori dalla finestra. Per molti versi lo ritengo un limite e una facile scappatoia dall’opportunità di dire qualcosa di sensato e forse addirittura di importante sul genere umano e su quelle che fa, fuori dalla finestra. Ma è una vocazione, appunto, una chiamata, un’aspirazione che forse fa irrimediabilmente parte del DNA dei videogiochi, nel senso “di chi fa i videogiochi”. Another World, un altro mondo, fuori da questo mondo: con le sue regole, le sue leggende, i suoi ricordi, i suoi abitanti, i suoi scontri, le sue sconfitte.
Cocoon è un altro mondo, o forse è addirittura un contenitore di mondi. Il gioco non si prende mai la briga di spiegare alcunché: non esiste una singola parola che compaia a schermo. Quello che trasferisce a chi si siede di fronte allo schermo, lo trasferisce utilizzando altri strumenti, visivi e sonori. Lo smarrimento iniziale lascia spazio alla curiosità e al fascino di panorami extraterrestri. L’idea di non essere all’altezza, di non aver capito, di essersi persi qualcosa, scivola via al primo enigma risolto, salvo poi ripresentarsi ciclicamente. In questo Cocoon segue un percorso che è tipico di tanti altri giochi arrivati prima di lui: sfidare il giocatore, alzare costantemente il livello quanto basta per far ricomparire in fondo alla testa il dubbio di non essere all’altezza del compito. Si tratta della prima parte di un meccanismo che si completa con una bella scarica di soddisfazione quando invece si scopre di essere capaci di sbrogliare la matassa.
I panorami e la sfida sono le due metà della sfera perfetta di Cocoon, che utilizza questa forma per rappresentare i mondi sollevati e spostati sulla schiena dal personaggio principale. Che è poi l’unico personaggio, al di là di piccole creature meccaniche o abnormi creature biologiche. Secondo la regola (non scritta) non esiste un videogioco degno di passare alla Storia in cui una di queste due parti, quello che si vede e quello che si fa, sia stata maltrattata. Ci sono delle eccezioni, che come sempre non fanno altro che confermare la regola. Cocoon non è un’eccezione.
Quello che si fa è reagire alle provocazioni di Jeppe Carlsen, ideatore di Cocoon e dei suoi enigmi. L’elenco di chi ha partecipato alla fase di testing è più lungo di quello di chi ha realizzato il gioco e il motivo è chiarissimo: le sfide di Cocoon sono cervellotiche e nell’ultima parte sfociano in una sorta di psichedelia. Si spostano delle sfere, si attivano degli interruttori, si circumnavigano delle minacce e via così. Quando però si avanza nella missione, sconosciuta, dell’essere-moscone, i livelli della (ir)realtà iniziano a sovrapporsi. I mondi sono più d’uno e possono finire per ingoiarsi l’un l’altro, il che si riverbera sui piani esistenziali al loro interno. Da qui l’esigenza di avere decine di teste disposte a scoprire se e come questi enigmi potessero rompersi o essere rotti, quanto dovessero suggerire e quanto lasciare nascosto. Il punto di equilibrio trovato mi pare inappuntabile e l’affidabilità dei loro comportamenti mai in discussione (almeno nella mia partita).
Il modo in cui tutto questo succede è elegante come il gusto che ha dato forma, colori e suoni ai mondi. Le luci sono diverse dalle nostre, ma colpiscono i canyon di uno dei mondi di Cocoon in maniera sufficientemente familiare da smuoverti qualcosa dentro. La foschia di una palude viene saltuariamente bucata dal lampeggio di un meccanismo futuristico che si è messo in moto, seguendo le istruzioni date chissà da chi, chissà quando e chissà perché. Quando, poi, i delicati rintocchi dei passi dell’uomo-moscone lo accompagnano fin di fronte a un colosso che prende vita quasi dal nulla, è impossibile assistere alla scena senza provare un senso di rapimento e rispetto.
Ogni cosa che si muove sullo schermo lo fa seguendo percorsi e coreografie degne di un balletto. Ogni pulsare di luce, lo schiudersi o serrarsi di una calotta metallica (ma sarà un metallo?), il librarsi in aria di un essere, lo scivolamento delle parti di una serratura antica: è stato tutto pensato per apparire armonioso e perfetto. Giocando a Cocoon mi sono tornate in mente tante cose, tra cui un’intervista in cui i Daft Punk rivelarono con molta semplicità di aver passato anni a elaborare il suono della batteria nei pezzi di Random Access Memories (2013). Sono passati sette anni tra l’uscita di Inside, il precedente gioco di Jeppe Carlsen, e Cocoon.
Se in tanti nei videogiochi seguono ancora la stella cometa di un nuovo mondo, pochi arrivano a trovarne uno. Più spesso rimangono invischiati nel fango di un quasi-pianeta-Terra, troppo simile al nostro per vincere la resistenza della mente e guadagnarsi la sospensione assoluta dell’incredulità. Quello che si vede e quello che succede e quello che si fa in Cocoon è, invece, assolutamente impossibile e totalmente credibile, passati i primi cinque minuti. Benvenuti in un altro mondo.
UNA SOLA COSA DI COCOON
I successi di Cocoon sono tanti, quello che mi ha sorpreso di più è il suo sound design. In un gioco che non ti parla, non ti scrive e si guarda bene dal prenderti per mano, i suggerimenti sonori sono stati essenziali. Liberato da una colonna sonora pressoché assente, lo spazio a disposizione degli effetti gli ha dato modo di comunicare con eleganza ed efficacia al giocatore. Lo sbuffare di un grosso meccanismo che rimane udibile anche a distanza mi ha fatto intuire che, forse, non potevo ancora lasciarmelo alle spalle per sempre. Il vibrare e sollevarsi delle ali dell’uomo-moscone mi ha indicato la presenza di un elemento interattivo. Il delicato rintocco dei suoi passi mi ha chiarito la natura della superficie su cui mi stavo muovendo. Il barrito del sub-woofer ha spiegato meglio di mille avvisi lampeggianti la differenza di scala tra il mio uomo-moscone e l’immensità di chi o cosa gli si parava davanti.
RICONOSCIMENTI
Game Design, Game Direction e Puzzle Design
Jeppe Carlsen
(Lead Game Designer - Limbo, Design - 140, Game Designer - TOTH, Lead Gameplay Designer - Inside)
Art Direction, Art Lead ed Environment Art
Erwin Kho
Audio Direction & Music
Jakob Schmid
(Audio - 140, Audio Programmer - Inside, DSP Programming - Rytmos)
Sound Design
Lukas Julian Lentz
Mikkel Anttila
(Game Designer - Welcome to Elk)